Robert Silverberg - Morire dentro

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Morire dentro: краткое содержание, описание и аннотация

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Morire dentro: è questa la sorte che attende David Selig, il telepate, profilandosi come un incubo all’orizzonte della sua esistenza. Una minaccia a un tempo psichica e biologica corrode i suoi poteri: e per Selig, abituato a «spiare» gli angoli più morbosi e reconditi dei suoi simili, a nutrirsi delle emozioni altrui, il lento affievolirsi delle proprie capacità è un graduale stillicidio. Robert Silverberg ci trasporta con questo romanzo (uno dei suoi ultimi) nella mente del telepate, sicché il lettore può provare, in «soggettiva», l’incredibile esperienza dl guardare in un altro universo, condividendo le emozioni dl una terza vista. Selig raggiunge cosi l’età in cui il suo dono potrebbe maggiormente giovargli: e invece si trova nuovamente respinto da una società che non è pronta per quelli come lui, e in cui anche il rapporto con un essere che possiede i suoi stessi poteri ESP diventa ambiguo e pericoloso. Moderno «Slan», David Selig si trova di fronte a un enigma troppo vasto per la sua fragile personalità: perchè sta perdendo il suo potere mentale? Si tratta solo di un male biologico, o di una minaccia più insidiosa? E che cosa sarà di lui al termine di questa incredibile «odissea nel pensiero»? Come ha scritto la rivista Analog: «Questo romanzo è intensamente umano… intensamente vero. I lettori ricorderanno
per una generazione, e forse ancor più».
Robert Silverberg non ha bisogno di presentazioni;
ha scritto di lui: «E il nostro autore migliore. Di volta in volta ha costantemente ampliato i parametri della fantascienza».

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All’inizio di novembre Nyquist diede uno dei suoi occasionali party con cena, facendosi mandare i cibi da un ristorante di Chinatown che prediligeva. I suoi party erano sempre brillanti; rifiutare l’invito sarebbe stato assurdo. Perciò alla fine fui costretto a esporti a lui. Per più di tre mesi ti avevo tenuta lontana da lui, più o meno deliberatamente, sfuggendo il momento del confronto, una vigliaccheria di cui non mi ero pienamente reso conto. Arrivammo in ritardo: tu eri lenta a prepararti. Il party era già cominciato, quindici o sedici persone; molti erano celebrità, anche se non per te, perché cosa ne sapevi tu di poeti, compositori, romanzieri? Ti presentai a Nyquist. Lui sorrise e sussurrò un complimento sdolcinato e ti diede un bacio blando, impersonale. Apparivi timida, quasi timorosa nei riguardi di lui, della sua schiettezza e dolcezza. Dopo un brevissimo scambio di parole se la filò per andare ad aprire la porta. Un po’ più tardi, mentre stavamo prendendo il nostro primo drink, io gli piantai in testa un pensiero.

— Be’? Che ne pensi di lei?

Lui, però, era troppo occupato con gli altri ospiti per entrare in contatto con me e non colsi nessuna risposta alla mia domanda. Dovevo cercare la soluzione per conto mio nella sua stessa testa. Mi inserii (mi lanciò un’occhiataccia attraverso la stanza, ben comprendendo quello che stavo facendo) e andai alla caccia di informazioni. Strati di porcherie da stalliere coprivano i suoi livelli superficiali; simultaneamente stava offrendo da bere, sostenendo una conversazione, facendo segno che era tempo che gli strudel fossero serviti, e intimamente stava scorrendo la lista degli ospiti per vedere chi doveva ancora arrivare. Tagliai corto superando questa roba e in un attimo trovai il suo angolino dei pensieri su Kitty. Di colpo venni a sapere quello che volevo e temevo. Lui era capace di leggerti. Sì. Per lui eri trasparente come chiunque altro. Soltanto per me eri opaca, per motivi che nessuno conosceva. Nyquist ti aveva penetrata istantaneamente, ti aveva valutata, si era formato il suo giudizio su di te, ed era lì pronto perché io potessi esaminarlo: ti vedeva goffa, immatura, ingenua sì, però attraente e piena di charme (ecco come ti ha vista. Non sto affatto tentando, per mie ragioni personali, di renderlo più critico nei tuoi riguardi di quanto sia stato in realtà. Tu eri molto giovane, non eri per niente sofisticata, e lui lo vide). La scoperta mi lasciò di ghiaccio. La gelosia si incrostò in me. Il lavoro massacrante che avevo fatto per tante settimane per arrivare a te, tutto da buttare via; mentre lui poteva così facilmente penetrare nel tuo intimo, Kitty! Immediatamente diventai sospettoso. Nyquist e i suoi scherzi maliziosi: era anche questo uno dei tanti? Era davvero capace di leggerti? Come potevo essere sicuro che non fingesse, a mio uso e consumo? Lui colse questo pensiero.

“Non ti fidi di me? È naturale che io legga nella sua mente.”

“Può darsi di sì, come può darsi di no.”

“Vuoi che te lo provi?”

“Come?”

“Sta a guardare.”

Senza interrompere neanche per un attimo il suo ruolo di padrone di casa, entrò nella tua mente, mentre la mia restava attaccata strettamente alla sua. E così, tramite lui, io ebbi la mia prima e unica visione del tuo intimo, Kitty, riflesso attraverso Tom Nyquist. Oh! Non era la visione di cui avevo bisogno, proprio per niente. Vidi me stesso attraverso i tuoi occhi tramite la sua mente. Fisicamente io apparivo, per quel che importa, meglio di quanto immaginavo di essere, le spalle più larghe di quello che erano di fatto, il volto più scarno, le fattezze più regolari. Nessun dubbio che tu eri sensibile al mio corpo. Ma le associazioni emotive! Mi vedevi come un padre severo, un maestro di scuola arcigno, un tiranno brontolone. Leggi questo, leggi quello, metti alla prova la tua mente, ragazzina! Studia sodo per essere degna di me! Oh! E poi quel nucleo fiammeggiante di risentimento per i nostri esperimenti ESP: più che inutili e dannosi, per te, una noia mastodontica, un viaggio nella pazzia, una fatica enorme, lacerante. Notte dopo notte essere tormentata da quel monomaniaco, io. Addirittura le nostre scopate infestate dalla folle ricerca del contatto mente-a-mente. Quanto eri disgustata di me, Kitty! Come mi consideravi mostruosamente pazzo!

Un attimo di rivelazione di questo tipo fu più che sufficiente. Punto sul vivo, mi tirai indietro, allontanandomi rapidamente da Nyquist. Mi ricordo: stavi guardandomi allarmata, quasi sapessi a uno stadio subliminale che potenti energie mentali erano sprizzate attraverso la stanza, mettendo a nudo l’intimità della tua anima. Sbattesti le ciglia e le tue guance si arrossarono e buttasti giù un enorme sorso del tuo drink. Nyquist mi lanciò un sorriso sardonico. Non riuscii a incrociare i suoi occhi. Ma anche allora opposi resistenza a quanto lui mi aveva rivelato. Non avevo già visto strani effetti di rifrazione in precedenza, in collegamenti di questo tipo? Non era mio dovere dubitare dell’esattezza del suo quadro dell’immagine che ti eri fatta di me? Non poteva darsi che lui l’avesse oscurata e colorita, introducendovi maliziose distorsioni e ingigantendo alcuni particolari? Davvero ti avevo tormentato tanto, Kitty, o si trattava di semplice noia scherzosamente esagerata in vivido malessere? Non potevo accettare di averti annoiato a morte. Noi tutti tendiamo a interpretare gli avvenimenti secondo come più ci piace vederli. Però mi ripromisi di andarci piano, con te, in futuro.

Più tardi, dopo che avemmo mangiato, ti scorsi che parlavi animatamente con Nyquist all’altro estremo della stanza. Tu eri leggera e frivola, come eri stata con me quella prima volta nell’ufficio di cambio. Immaginai che steste discutendo di me e che non fossero complimenti. Tentai di captare la conversazione passando attraverso Nyquist, però al primo tentativo di sondaggio lui se la prese a male.

“Stai lontano dalla mia testa, d’accordo?”

Obbedii. Vi sentii ridere, troppo sonoramente, coprivate il mormorio della conversazione. Mi allontanai per parlare con un’agile piccola scultrice giapponese il cui seno piatto, bronzeo spuntava poco attraente da una guaina nera scollata. Stava pensando in francese, e le avrebbe fatto piacere che io le chiedessi di venire a casa con me. Io, invece, tornai a casa con te, Kitty, che te ne stavi seduta imbronciata e sgraziata accanto a me nel metrò vuoto, e quando ti chiesi di che cosa tu e Nyquist avevate discusso, dicesti: — Oh! Stavamo soltanto prendendo in giro un po’ questo, un po’ quello. Stavamo soltanto divertendoci.

Circa due settimane più tardi, in un chiaro frizzante pomeriggio autunnale, il presidente Kennedy fu ucciso a Dallas. Il mercato di borsa chiuse prestissimo subito dopo quel terribile assassinio e Martinson tenne chiuso l’ufficio, buttandomi fuori, intontito, sulla strada. Non riuscivo con facilità ad accettare che fosse vera quella successione di eventi. Qualcuno ha sparato al presidente… Qualcuno ha sparato al presidente… Qualcuno ha sparato al presidente, alla testa… Il presidente è stato ferito; è gravissimo… Il presidente è stato trasportato di corsa al Parkland Hospital… Il presidente ha ricevuto gli ultimi sacramenti… Il presidente è morto. Non sono mai stato un tipo particolarmente interessato alla politica, ma questa coltellata alla salute stessa della nazione mi buttò a terra. Kennedy era stato l’unico candidato alla presidenza per cui avevo votato che avesse vinto, e loro me lo ammazzavano: la storia della mia vita in una sintetica parabola di sangue. E adesso ci sarebbe stato come presidente quel Johnson. Sarei riuscito ad adattarmici? Io mi aggrappo con le unghie alle zone di stabilità. Quando avevo dieci anni e morì Roosevelt, Roosevelt che era stato presidente durante tutta la mia vita, assaggiai, sulla punta della lingua, quelle sillabe poco familiari: presidente Truman , e le sputai di colpo, dicendomi che avrei chiamato anche lui presidente Roosevelt, perché era così che io ero abituato a chiamare il presidente.

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