Robert Silverberg - Morire dentro

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Morire dentro: краткое содержание, описание и аннотация

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Morire dentro: è questa la sorte che attende David Selig, il telepate, profilandosi come un incubo all’orizzonte della sua esistenza. Una minaccia a un tempo psichica e biologica corrode i suoi poteri: e per Selig, abituato a «spiare» gli angoli più morbosi e reconditi dei suoi simili, a nutrirsi delle emozioni altrui, il lento affievolirsi delle proprie capacità è un graduale stillicidio. Robert Silverberg ci trasporta con questo romanzo (uno dei suoi ultimi) nella mente del telepate, sicché il lettore può provare, in «soggettiva», l’incredibile esperienza dl guardare in un altro universo, condividendo le emozioni dl una terza vista. Selig raggiunge cosi l’età in cui il suo dono potrebbe maggiormente giovargli: e invece si trova nuovamente respinto da una società che non è pronta per quelli come lui, e in cui anche il rapporto con un essere che possiede i suoi stessi poteri ESP diventa ambiguo e pericoloso. Moderno «Slan», David Selig si trova di fronte a un enigma troppo vasto per la sua fragile personalità: perchè sta perdendo il suo potere mentale? Si tratta solo di un male biologico, o di una minaccia più insidiosa? E che cosa sarà di lui al termine di questa incredibile «odissea nel pensiero»? Come ha scritto la rivista Analog: «Questo romanzo è intensamente umano… intensamente vero. I lettori ricorderanno
per una generazione, e forse ancor più».
Robert Silverberg non ha bisogno di presentazioni;
ha scritto di lui: «E il nostro autore migliore. Di volta in volta ha costantemente ampliato i parametri della fantascienza».

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Sa che questa estasi durerà eternamente.

Invece, nel momento della percezione, sente che sta già scivolando via. La felice nota del coro si affievolisce. Il sole si lascia cadere dietro l’orizzonte. Il mare lontano che sta ritirandosi, risucchia la spiaggia. Lui si dibatte per afferrarsi strettamente alla gioia, ma più si dibatte più perde terreno. Aggrappati stretto alla corrente! Come? Ritarda il cadere della notte! Come? Come? Il canto degli uccelli adesso è flebile. L’aria si è fatta frizzante. Ogni cosa fugge lontana. Resta in piedi, solo, nell’oscurità crescente, pieno del ricordo dell’estasi, ricatturandola per un momento, facendola rivivere, perché già se n’è andata, e si deve richiamarla indietro con un atto di volontà. Andata, sì. All’improvviso, tutto è tranquillo. Lui sente un suono, l’ultimo, un accordo di strumenti, in lontananza, forse un violoncello, un pizzicato, uno stupendo suono di melanconia. Dlang. La corda del lamento. Dling. La corda che si rompe. Dlong. La lira scordata. Dlang. Dling. Dlong. E poi più niente. Il silenzio lo avvolge. Un silenzio finale, ecco cos’è. Un silenzio che rimbomba nelle caverne del suo cranio, il silenzio che segue il rompersi delle corde del violoncello, il silenzio che arriva con la morte della musica. Non sente niente, non può. Non prova niente. Non può. È solo. È solo.

Lui è solo.

— Così tranquillo — mormora. Così intimo. È-così-intimo-qui.

— Selig? — chiede una voce profonda. — Qual è il problema, Selig?

— Sto benissimo — dice Selig. Tenta di alzarsi in piedi, ma non c’è niente che abbia solidità. Sta cadendo attraverso la cattedra di Cushing, attraverso il pavimento dell’ufficio, sta cadendo attraverso il pianeta stesso, cercando e non trovando una piattaforma solida. — Così tranquillo. Il silenzio, Ted, il silenzio! — Braccia robuste lo afferrano. Ha coscienza di diverse figure che si agitano intorno. Qualcuno sta telefonando per un dottore: Selig scuote la testa, protesta che non c’è niente che va male, assolutamente niente, eccetto il silenzio nella sua testa, eccetto il silenzio, il silenzio.

Eccetto il silenzio.

26

L’inverno è alle porte. Cielo e strada formano una continua, inesorabile striscia di grigio. Ci sarà presto la neve. Per qualche motivo i vicini se ne sono andati per tre o quattro giorni, e rigonfi sacchi di immondizia sono ammucchiati davanti a ogni edificio, eppure non c’è odore di sporcizia nell’aria. Del resto gli odori non potrebbero prosperare in queste temperature: il freddo trascina via ogni puzza, ogni segno di realtà organica. Soltanto il concreto trionfa qui. Il silenzio regna. Negri macilenti e gatti grigi, immobili, statue di se stessi, occhieggiano dai viali. Il traffico è leggero. Camminando svelto per le strade dalla stazione del metrò fino all’abitazione di Judith, distolgo i miei occhi dai volti della poca gente che incontro. Mi sento intimidito e impacciato, vergognoso tra loro, come un veterano della guerra che sia appena stato dimesso dal centro riabilitazione e sia imbarazzato per le sue mutilazioni. Naturalmente non sono capace di dire che cosa la gente sta pensando; adesso le loro menti sono chiuse per me e mi passano accanto portando scudi di impenetrabile ghiaccio; ma, ironia della sorte, ho l’impressione, l’illusione che tutti loro abbiano accesso a me. Possono guardare dritto dentro il mio essere e vedermi così come mi sono ridotto. Ecco David Selig, staranno pensando. Quanto è stato imprudente! Che cattivo custode del suo potere! Lo ha rovinato e ha lasciato che gli sfuggisse, quell’imbecille. Mi sento in colpa perché provoco in loro questa delusione. Eppure non provo ancora quel senso di colpa che penso potrei provare. A qualche livello, l’ultimo livello, non mando tutti al diavolo. È questo quello che sono, dico a me stesso. È questo che sarò d’ora in poi. Se non vi piace, allora merda! Tentate di accettarmi. Se non ce la fate, ignoratemi.

«Come la società perfetta si avvicina sempre di più alla solitudine, così il linguaggio più elaborato alla fine si riduce a silenzio. Il silenzio è udibile per tutti gli uomini, in tutti i tempi, e in tutti i luoghi.» Così diceva Thoreau, nel 1849, in Una settimana sui fiumi Concord e Merrimack. Naturalmente Thoreau era un pesce fuor d’acqua, un outsider con seri problemi nervosi. Quando era un giovanotto appena uscito dal college, si innamorò di una ragazza di nome Ellen Sewall, ma lei lo fece girare alla larga, e lui non si sposò mai. Mi chiedo se abbia mai fatto l’amore con qualcuno. Probabilmente no. Io non riesco a immaginarmi Thoreau che sta facendo all’amore, e voi? Oh, può anche darsi che non sia morto vergine, ma scommetto che la sua vita sessuale è stata una frana. Forse non si è mai masturbato. Riuscite a figurarvi Thoreau che se ne sta seduto accanto a quello stagno e se lo mena? Io no. Povero Thoreau. Il silenzio è udibile, Henry.

Mentre mi avvicino al palazzo dove abita Judith, mi immagino di incontrare Toni per la strada. Mi pare di scorgere una figura alta che cammina verso di me da Riverside Drive, senza cappello, avvolta in un voluminoso cappotto color arancio. Ci separa circa metà isolato, quando la riconosco. Stranamente, non provo né eccitazione né apprensione per questa riunione inattesa; sono assolutamente calmo, quasi impassibile. In altri momenti forse avrei potuto passare sull’altro lato della strada per evitare un incontro che poteva infastidirmi, non però oggi: con freddezza la fermo, sorrido, allungo una mano per salutarla. — Toni? — dico. — Non mi riconosci?

Lei mi studia, aggrotta le ciglia, sembra per un attimo imbarazzata. Però solo un attimo.

— David. Salve.

Il suo volto appare smunto, gli zigomi sono più sporgenti e duri. Nei suoi capelli c’è una spruzzatina di grigio. Quando la frequentavo io, aveva un curioso riuffo grigio su una tempia, stranissimo; adesso il grigio è sparpagliato e molto più abbondante in mezzo al nero dei suoi capelli. Del resto è naturale: è nel bel mezzo della trentina. Non è più una ragazza. In realtà è vecchia come lo ero io quando la incontrai per la prima volta. Però, tutto sommato, è cambiata poco, solo un po’ più matura. Mi sembra bellissima come sempre. Eppure ogni desiderio mi è ignoto, assente. La passione si è logorata, Selig. La passione si è logorata. E anche lei, misteriosamente, è libera da agitazioni. Ricordo bene il nostro ultimo incontro, quello sguardo sofferente sul suo volto, quell’ossessionante mucchio di cicche di sigarette. Adesso la sua espressione è dolce, quotidiana. Tutti e due siamo passati attraverso la zona delle burrasche.

— Hai una bella cera — dico. — Quanto tempo è, otto anni, nove?

La risposta la conosco già. Solo un test per lei. E lei supera l’esame dicendo: — L’estate del ’68. — Mi sento sollevato vedendo che non ha dimenticato. Sono ancora un capitolo della sua autobiografia, dunque. — Come te la sei passata, David?

— Non male. — Le solite sciocchezze, solo per parlare. — Che cosa stai facendo di questi tempi?

— Adesso sono alla Random House. E tu?

— Lavoro indipendente — rispondo. — Qua e là. — È sposata? Le sue mani inguantate non mi forniscono nessuna informazione. Non ho il coraggio di chiederglielo. Sono assolutamente impotente a sondarle la mente. Faccio un sorriso forzato e oscillo spostando il mio peso da piede a piede. Il silenzio che è sceso all’improvviso su di noi sembra invalicabile. Abbiamo esaurito così presto tutti gli argomenti possibili? Non sono rimaste zone di contatto da riaprire, al di fuori di quelle troppo intrise di dolore?

Lei dice: — Sei cambiato.

— Sono più vecchio. Più stanco. Più nudo.

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