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Robert Silverberg: Morire dentro

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Robert Silverberg Morire dentro

Morire dentro: краткое содержание, описание и аннотация

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Morire dentro: è questa la sorte che attende David Selig, il telepate, profilandosi come un incubo all’orizzonte della sua esistenza. Una minaccia a un tempo psichica e biologica corrode i suoi poteri: e per Selig, abituato a «spiare» gli angoli più morbosi e reconditi dei suoi simili, a nutrirsi delle emozioni altrui, il lento affievolirsi delle proprie capacità è un graduale stillicidio. Robert Silverberg ci trasporta con questo romanzo (uno dei suoi ultimi) nella mente del telepate, sicché il lettore può provare, in «soggettiva», l’incredibile esperienza dl guardare in un altro universo, condividendo le emozioni dl una terza vista. Selig raggiunge cosi l’età in cui il suo dono potrebbe maggiormente giovargli: e invece si trova nuovamente respinto da una società che non è pronta per quelli come lui, e in cui anche il rapporto con un essere che possiede i suoi stessi poteri ESP diventa ambiguo e pericoloso. Moderno «Slan», David Selig si trova di fronte a un enigma troppo vasto per la sua fragile personalità: perchè sta perdendo il suo potere mentale? Si tratta solo di un male biologico, o di una minaccia più insidiosa? E che cosa sarà di lui al termine di questa incredibile «odissea nel pensiero»? Come ha scritto la rivista Analog: «Questo romanzo è intensamente umano… intensamente vero. I lettori ricorderanno per una generazione, e forse ancor più». Robert Silverberg non ha bisogno di presentazioni; ha scritto di lui: «E il nostro autore migliore. Di volta in volta ha costantemente ampliato i parametri della fantascienza».

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Poi fecero dei giochi di parole. Il dottore diceva una parola e chiedeva a David di dire la prima parola che gli veniva in mente. David trovava molto più divertente dire la prima parola che veniva in mente al dottor Hittner. Impiegava soltanto una frazione di secondo per afferrarla, e non sembrava che il dottor Hittner si rendesse conto di quello che succedeva. Il gioco si svolse più o meno così:

— Padre.

— Pene.

— Madre.

— Letto.

— Bambino.

— Morto.

— Acqua.

— Ventre.

— Tunnel.

— Vagina.

— Cassa da morto.

— Madre.

Erano le parole giuste da dire? Chi era il vincitore in quel gioco? Perché il dottor Hittner appariva così sconvolto?

Finalmente smisero di fare giochi e si limitarono a chiacchierare. — Tu sei un ragazzino molto intelligente — disse il dottor Hittner. — Non ti faccio del male dicendotelo, perché lo sai già. Che cosa vuoi fare da grande?

— Niente.

Niente?

— Mi piace soltanto giocare e leggere un mucchio di libri e nuotare.

— Ma come ti guadagnerai da vivere?

— Mi farò dare i soldi dalla gente quando ne avrò bisogno.

— Se trovi il modo, spero proprio che mi svelerai il segreto — disse il dottore. — Ci stai bene qui a scuola?

— No.

— Perché no?

— I maestri sono troppo severi. Lo studio è troppo stupido. Ai ragazzi non piaccio.

— Non ti sei mai chiesto perché non ti vogliono bene?

— Perché sono più intelligente di loro — rispose David. — Perché io… — Ahi! Quasi lo diceva. “Perché io posso vedere quello che stanno pensando”. Non devi mai dirlo a nessuno. Il dottor Hittner stava aspettando che lui finisse la frase.

— Perché io faccio un mucchio di casino in classe.

— E perché fai così, David?

— Non lo so. Mi dà qualcosa da fare, credo.

— Forse se tu non disturbassi tanto, loro ti vorrebbero bene. Non vuoi che gli altri ti vogliano bene?

— Non mi interessa. Non ne ho bisogno.

— Tutti hanno bisogno di avere degli amici, David.

— Io ho degli amici.

— La signora Fleischer dice che non ne hai poi tanti, e che li picchi moltissimo e li fai piangere. Perché picchi i tuoi amici?

— Perché non mi piacciono. Perché sono stupidi.

— Allora non sono amici sul serio, se è questo che provi per loro.

Scrollando le spalle, David disse: — Posso andare avanti anche senza di loro. Mi diverto soltanto a stare con me stesso.

— Ci stai bene a casa?

— Credo di sì.

— Vuoi bene alla mamma e al papà?

Una pausa. Un senso di enorme tensione che proveniva dalla mente del dottore. Questa è una domanda importante. Dai la risposta giusta, David. Dagli la risposta che vuole.

— Sì — disse David.

— Hai mai desiderato avere un fratellino o una sorellina?

Adesso niente esitazioni. — No.

— Proprio no? Ti piace startene tutto solo?

David annuì. — Il pomeriggio è il tempo migliore. Quando sono a casa da scuola e non c’è nessuno in giro. Sto per avere un fratellino o una sorellina?

Una risatina soffocata da parte del dottore. — Questo proprio non lo so. Dovresti chiederlo alla mamma o al papà, non credi?

— Lei non dirà loro di andare a prenderne uno per me, vero? Voglio dire, potrebbe dire loro che sarebbe bene per me averne uno, e allora loro andrebbero a prenderlo; ma io invece non lo voglio… — Sono turbato, si accorse improvvisamente David.

— Che cosa ti fa pensare che io direi ai tuoi genitori che sarebbe una bella cosa per te avere un fratellino o una sorellina? — chiese il dottore, tutto tranquillo; però, adesso, non sorrideva per niente.

— Non lo so. Era soltanto un’idea. — Che ho trovato nella tua mente, dottore. E adesso sento il bisogno di uscire di qui. Non voglio più parlare con te. — Ehi! il suo nome non è sul serio Hittner, vero? Con la n ? Ci scommetto che io lo conosco il suo vero nome. Heil!

3

Non sono mai riuscito a inviare i miei pensieri nella testa di qualcun altro. Anche quando il potere in me era fortissimo, io non ero capace di trasmettere. Ero capace soltanto di ricevere. Può darsi che ci siano in giro delle persone che hanno questo potere, che riescono a trasmettere pensieri anche a quelli che non possiedono nessun dono speciale di ricezione; ma non sono mai stato uno di loro. E così sono diventato la creatura più abietta della società, quello che origlia, il voyeur. C’è un antico proverbio inglese: chi spia dal buco della serratura, può vedere cose che gli faranno male. Proprio così. Negli anni in cui ero particolarmente avido di comunicare con la gente, ho fatto terribili sforzi tentando di far penetrare in loro i miei pensieri. Stavo seduto in classe fissando la nuca di una ragazza, e pensavo con forza verso di lei: “Salve, Annie, è David Selig che ti chiama, mi capti? Mi capti? Ti amo, Annie. Alla follia. Alla follia e anche di più”. Ma Annie non mi captò mai, e la corrente della sua mente avrebbe continuato a scorrere come un placido ruscello, non certo disturbata dall’esistenza di David Selig.

Non c’era, dunque, modo di comunicare con le altre menti; potevo solo spiarle. Il modo in cui il potere si manifesta in me è molto variabile. Non ho mai avuto un vero controllo cosciente, se non si conta la capacità di bloccare l’intensità di emissione e quella di sintonizzarmi su una certa persona. In genere dovevo prendere tutto quello che veniva e accumulare tutto. Quasi sempre afferravo i pensieri superficiali di una persona, la prevocalizzazione delle parole che stava per pronunciare. Pensieri di questo tipo mi arrivavano, con chiarezza, in forma di conversazione, esattamente come se fossero già stati detti; era però diverso il tono della voce; non era per niente il tono prodotto da un apparato vocale. Non riesco a ricordare nessun periodo, neppure nella mia fanciullezza, nel quale abbia confuso la comunicazione verbale con la comunicazione mentale. Questa abilità di leggere i pensieri superficiali è rimasta abbastanza costante: riesco ancora ad anticipare l’esposizione verbale, il più delle volte, soprattutto quando sono con qualcuno che ha l’abitudine di ripetere dentro di sé quello che intende dire.

Riuscivo anche, e fino ad un certo punto ci riesco anche adesso, ad anticipare le intenzioni improvvise, come la decisione di mollare un brusco destro alla mascella. Il modo in cui mi arrivano le informazioni varia. Posso afferrare una coerente esposizione verbale interna — adesso gli tiro un destro sul muso — oppure, se succede che il potere funziona quel giorno a livelli più profondi, riesco a captare una serie di istruzioni non-verbali per i muscoli, le quali, in una frazione di secondo, si sommano nel processo di alzare il braccio destro per mollare un pugno alla mascella. Si potrebbe chiamare “linguaggio somatico su lunghezza d’onda telepatica”.

Sono anche riuscito a fare un’altra cosa, anche se mai con continuità; sintonizzarmi con gli strati più profondi della mente… dove vive l’anima, se volete. Dove la coscienza giace immersa in un tenebroso mare di indistinti fenomeni inconsci. Là si celano speranze, timori, intuizioni, propositi, passioni, ricordi, assunti filosofici, linee di condotta morale, appetiti, pene, tutto il caotico misto di eventi e atteggiamenti che definiscono l’io individuale. Di solito alcune sensazioni profonde affiorano fino a me anche quando si stabilisce un contatto mentale superficiale: non so trattenermi dal raccogliere un certo numero di informazioni sul “colore” dell’anima. Ma ogni tanto — adesso sempre più raramente — pianto i miei artigli nell’essenza vera e propria, la personalità globale. È l’estasi. Un senso di contatto che ti dà la scossa. Accoppiato, è ovvio, con un lacerante, paralizzante senso di colpa, perché è l’espressione massima del mio voyeurismo: quanto può una persona essere più indiscreta di un ficcanaso voyeur? Tra parentesi: l’anima parla una lingua universale, Quando guardo nella mente della signora Esperanza Dominguez, per esempio, e vi afferro un farfugliamento in spagnolo, io di fatto non so che cosa stia pensando, perché non capisco molto bene lo spagnolo. Ma se penetro nella profondità della sua anima, ho una totale comprensione di tutto quello che vi si può cogliere. La mente può pensare in spagnolo o basco o ungherese, o finnico; l’anima, però, pensa in una lingua senza lingua, accessibile a qualunque ficcanaso furtivo, capriccioso, che s’intrufola per spiare di nascosto i suoi misteri.

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