Lloyd non sapeva cosa dire, né cosa fare. Normalmente la morte di un figlio era la crisi peggiore che un genitore potesse affrontare, ma certo Michiko non era la sola, oggi, ad affrontare una tragedia del genere. C’erano tanti morti, tanti feriti, tanta distruzione. Quello scenario di orrore non rendeva la perdita di Tamiko meno dura da sopportare, naturalmente, ma…
…ma c’erano delle cose che andavano fatte. Forse Lloyd non avrebbe mai dovuto lasciare il CERN; in fin dei conti l’esperimento che probabilmente aveva causato tutto ciò era suo e di Theo. Senza dubbio aveva accompagnato Michiko non solo per amore suo e di Tamiko, ma anche perché, almeno in parte, aveva sentito il bisogno di fuggire da ciò che non aveva funzionato a dovere, qualsiasi cosa fosse.
Ma adesso…
Adesso dovevano tornare al CERN. Se qualcuno poteva farsi un’idea di quello che era successo — non solo lì, ma in tutto il mondo, come indicavano i servizi radio e i commenti di altri genitori che gli erano giunti all’orecchio — quel qualcuno non poteva che essere del CERN. Non potevano aspettare che un’ambulanza venisse a prendere il corpo… potevano volerci ore, o giorni. D’altra parte la legge imponeva di non rimuovere il cadavere fino a che la polizia non avesse svolto le indagini di rito, anche se sembrava molto improbabile che il guidatore potesse essere ritenuto colpevole.
Alla fine, però, la signora Severin ritornò e si offrì volontaria, lei e il suo personale, per assistere il corpo di Tamiko fino all’arrivo della polizia.
Il volto di Michiko era rosso e gonfio, e i suoi occhi iniettati di sangue. Aveva pianto così tanto che non aveva più lacrime, ma ogni pochi minuti il suo corpo sobbalzava come se stesse ancora singhiozzando.
Anche Lloyd amava la piccola Tamiko… sarebbe diventata la sua figlia adottiva. Aveva passato così tanto tempo a confortare Michiko che non aveva trovato il tempo di piangere a sua volta; sarebbe venuto, il pianto, lo sapeva… ma adesso, proprio adesso, doveva essere forte. Usò l’indice per sollevare dolcemente il mento di Michiko. Aveva già le parole pronte — dovere, responsabilità, lavoro da svolgere, dobbiamo andare — ma a suo modo anche Michiko era forte, e saggia, e splendida, e lui l’amò con tutto il cuore, e non ebbe bisogno di pronunciare quelle parole. Lei riuscì ad annuire debolmente, con le labbra che tremavano. «Lo so» disse in inglese, con voce esile, rauca. «Lo so che dobbiamo tornare al CERN.»
L’aiutò mentre camminava, cingendole la vita con un braccio, e sostenendola sotto il gomito con l’altro. La nenia delle sirene non era mai cessata: ambulanze, vigili del fuoco, auto della polizia, che gemevano e urlavano il loro suono ora crescente, ora calante, un sottofondo sonoro continuo iniziato pochi minuti dopo il verificarsi del fenomeno. Raggiunsero la macchina di Lloyd nella luce calante della sera — molti dei lampioni non erano in funzione — e guidarono lungo le strade piene di detriti fino al CERN, con Michiko raggomitolata su se stessa per tutto il tempo.
Mentre guidavano, Lloyd pensò per un momento a un evento di cui gli aveva parlato una volta sua madre. Lui era un bambino, troppo giovane per ricordarsene: la notte in cui mancò l’energia elettrica, nel 1965, il grande blackout nel nordest americano. L’elettricità era mancata per ore. Quella notte sua madre era rimasta sola con lui; gli aveva detto che chiunque avesse vissuto quell’incredibile esperienza avrebbe ricordato per il resto della sua vita il punto in cui si trovava nel momento in cui era mancata la corrente.
La situazione, adesso, era la stessa. Chiunque avrebbe ricordato il luogo in cui si trovava quando quel blackout — un blackout di genere diverso — si era verificato.
Chiunque fosse sopravvissuto, cioè.
Quando Lloyd e Michiko fecero ritorno, Jake e Theo avevano radunato un gruppo di addetti all’LHC in una sala convegni al secondo piano del centro di controllo.
La maggior parte del personale del CERN viveva o nella città svizzera di Meyrin (che costeggiava il confine orientale del campus), a una dozzina di chilometri lungo la strada per Ginevra, oppure nelle città francesi di St. Genis o Thoiry, a nordovest del CERN. Ma provenivano da tutta Europa, così come dal resto del mondo. Le dodici facce che in quel momento fissavano Lloyd erano assai diverse. Anche Michiko si era unita al cerchio, ma era assente, con gli occhi sbarrati. Se ne stava seduta in una poltroncina, ondeggiando lentamente avanti e indietro.
Lloyd, come responsabile del progetto, prese la parola per primo. Fissò i presenti uno per uno. «Theo mi ha riferito quello che hanno detto alla CNN. Mi sembra piuttosto evidente che in tutto il mondo ci sono state una gran quantità di allucinazioni.» Respirò a fondo. Chiarezza, fermezza… ecco quello di cui aveva bisogno. «Vediamo se riusciamo a definire con precisione ciò che è successo. Vogliamo cominciare dal primo del cerchio? Non entrate nei particolari, limitatevi a una singola frase su quello che avete visto. Se non avete nulla in contrario prenderò degli appunti, d’accordo? Olaf, cominciamo con te?»
«Certo» rispose un uomo biondo e muscoloso. «Ero nella casa di villeggiatura dei miei genitori. Hanno uno chalet dalle parti di Sundvall.»
«In altre parole» disse Lloyd «era un posto che ti è familiare?»
«Oh, sì.»
«E quanto era accurata la visione?»
«Molto accurata. Era esattamente come lo ricordavo.»
«C’era qualcun altro, oltre a te, nella visione?»
«No… il che era piuttosto strano. L’unico motivo per cui vado là è per far visita ai miei genitori, e loro non c’erano.»
Lloyd ripensò all’immagine avvizzita di se stesso che aveva visto allo specchio. «Hai… hai visto te stesso?»
«In uno specchio, o qualcosa del genere, vuoi dire? No.»
«Va bene» disse Lloyd. «Grazie.»
La donna accanto a Olaf era di mezza età, e nera. Lloyd si sentì a disagio; sapeva che avrebbe dovuto conoscere il suo nome, ma non se lo ricordava. Alla fine si limitò a sorridere e disse: «Il prossimo.»
«Era il centro di Nairobi, credo» disse la donna. «Di notte. Era una serata calda. Mi sembra che fosse Dinesen Street, ma c’erano troppi edifici. E c’era anche un McDonald’s.»
«In Kenya non ci sono i McDonald’s?» chiese Lloyd.
«Certo, ma… voglio dire, l’insegna faceva capire che si trattava di un McDonald’s, ma il logo era sbagliato. Capisci, invece delle curve dorate c’era questa grossa M che era fatta di linee tutte dritte… aveva un aspetto molto moderno.»
«Perciò la visione di Olaf era quella di un luogo in cui si reca spesso, ma la tua era di un luogo in cui non eri mai stata prima, o almeno che non avevi mai visto?»
La donna annuì. «Credo di sì.»
Michiko era quattro posti più lontana, lungo il cerchio. Lloyd non riuscì a capire se seguiva o meno quello che stava succedendo.
«Tu che mi dici, Franco?»
Franco Della Robbia alzò le spalle. «Era Roma, di notte. Ma… non lo so, dev’essere stato una specie di videogioco, davvero. Qualcosa di videoregistrato.»
Lloyd si piegò in avanti. «Perché dici così?»
«Be’, era Roma, certo. Proprio dalle parti del Colosseo. E io guidavo una macchina… solo che non stavo guidando, non esattamente. La macchina sembrava procedere di sua iniziativa. E non potevo esserne proprio sicuro per la posizione in cui mi trovavo, ma ce n’erano parecchie che fluttuavano a venti centimetri da terra, più o meno.» Alzò di nuovo le spalle. «Come ho detto, una specie di simulazione.»
Sven e Antonia, che in precedenza, quello stesso giorno, avevano parlato entrambi di macchine volanti, annuirono con decisione. «Io ho visto la stessa cosa» disse Sven. «Certo, non era Roma… ma ho visto delle macchine che si muovevano sollevate da terra.»
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