Hal Clement - Pianeta di ghiaccio

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Pianeta di ghiaccio: краткое содержание, описание и аннотация

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Per la famiglia Wind, i monti dell'Ovest americano sono un ambiente di vita ideale e una fonte di benessere, dopo che babbo Wind ha scoperto la sua miniera d'oro segreta. Per i Sarriani, abituati a respirare zolfo volatile, il Pianeta di Ghiaccio è uno dei tanti mondi inabitabili dell'universo. Perfino le loro navette automatiche inviate verso le pianure azzurre che formano gran parte del pianeta cessano subito le comunicazioni. Di parere diverso sono invece alcuni contrabbandieri che, dalla loro base su Mercurio, da quasi trent'anni ottengono dal Pianeta di Ghiaccio preziose quantità di una potentissima droga allucinogena in cambio di modeste quantità di metalli preziosi. Tutto potrebbe ancora filare per il meglio (secondo il metro di questa Cosa Nostra dello spazio) se un giorno le autorità di Sarr non infiltrassero un loro scienziato nella banda di spacciatori, e se finalmente le barriere di gelo che isolano due culture aliene non crollassero in qualche modo. Per la prima volta in Italia uno storico romanzo classico firmato dal maestro dell'esobiologia.

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Ma, a quanto pareva, il meccanico era eccessivamente pessimista: in pochi minuti riuscì a portare la sonda in posizione verticale rispetto alla superficie del pianeta e a iniziare la manovra di discesa. Lo stesso Ken era in grado di capirlo dai quadranti; ed entro breve tempo anche l’altimetro a riflessione cominciò a trasmettere dati. Lo strumento cominciava a essere efficace a una distanza uguale al diametro di Sarr, circa diecimila chilometri, e Ken si sedette vicino all’operatore non appena notò che l’altimetro si muoveva. Non dovette fare molta strada.

Il suo personale quadro di strumenti, preparato in fretta da Allmer nei giorni precedenti, era ancora immobile. Gli indicatori di pressione erano ancora fermi allo zero, e la temperatura era bassa: a quanto pareva, si era già congelato anche il sodio. Da molte ore non c’erano cambiamenti: evidentemente, la sonda era in equilibrio termico con le radiazioni del sole lontano. Ken guardò con attenzione la lancetta dell’altimetro, che stava scendendo, e per un attimo si domandò quale sarebbe stato il primo effetto dell’ingresso nell’atmosfera. Un aumento di pressione, o una variazione di temperatura?

Per la cronaca, non rilevò alcun effetto. Fu Feth Allmer a notare l’aumento di pressione, prima che si fossero mossi gli indicatori di Ken; e l’investigatore ricordò che il portello era chiuso. C’erano state delle perdite in precedenza, ovviamente, ma la differenza di pressione tra l’interno e l’esterno era stata molto maggiore. A quanto pareva, attorno alla sonda c’era già una certa pressione atmosferica, anche alla temperatura indicata dal quadrante in quel momento.

«Aprite il portello di carico, per favore» disse Ken, nell’udirne l’annuncio da Allmer. «Così possiamo controllare se c’è qualche elemento che brucia spontaneamente.»

«Un minuto. Sto scendendo troppo velocemente. Se l’aria è densa, a questa velocità c’è il rischio che il portello si stacchi.»

«Non potete decelerare più in fretta?» domandò Ken.

«Sì, adesso. Un momento solo. Non intendo perdere tutta la giornata nella manovra, e ormai la superficie dista soltanto una trentina di chilometri. Da questo momento in poi, sono ai vostri ordini.»

Obbediente, la lancetta dell’altimetro rallentò la sua marcia sulla scala numerata. Ken cominciò a riscaldare il campione di titanio: era quello che aveva la temperatura di fusione più alta; inoltre, era quasi certo che l’atmosfera del pianeta conteneva azoto molecolare: almeno uno, fra i suoi esperimenti, doveva dare un esito positivo.

Quando la sonda giunse a otto chilometri dalla superficie, la piccola fornace era al calore bianco, almeno a giudicare dalla quantità di luce che colpiva la fotocellula posta nel compartimento di carico. La pressione atmosferica era misurabile, anche se insufficiente secondo i criteri sarriani, se ci si poteva fidare del tubo a gas; e Feth gli aveva detto di avere una tabella con le correzioni: l’aveva preparata calibrando sulla parte oscura del pianeta un certo numero di quegli strumenti.

«Possiamo rimanere fermi a questa altezza per qualche momento?» domandò Ken. «Voglio far reagire questo titanio con i gas dell’atmosfera, se possibile. La pressione atmosferica è sufficiente, e l’altezza è abbastanza grande perché non ci scorga nessuno.»

Allmer gli mostrò le indicazioni della fotocellula. «Il portello è aperto, e la fornace è molto luminosa. Vi consiglio di chiuderlo, anche se questo impedirà l’ingresso dell’atmosfera esterna. Una luce come quella, a una tale distanza dal terreno, dev’essere visibile per decine di chilometri.»

«Non ci avevo pensato» disse Ken, stupito di non averlo fatto. Rifletté per qualche istante, poi disse: «Sì, chiudiamo il portello. Conosciamo la misura della pressione. Se si abbassa, vuol dire che il nostro campione reagisce con l’atmosfera.»

«Giusto» commentò Allmer, facendo scattare la levetta che chiudeva il portello. Attese in silenzio che Ken azionasse i comandi. Priva dello sfogo costituito dall’apertura, da cui usciva gran parte del calore prodotto, la temperatura all’interno del compartimento cominciò a salire: Ken si aspettava che salisse anche la pressione, ma vide con piacere che, invece, scendeva. Per controllare la sua ipotesi, ordinò ad Allmer di aprire il portello per poi richiuderlo immediatamente, e il risultato confermò le sue aspettative: la pressione ritornò al valore precedente, poi riprese ad abbassarsi. A quanto pareva, il titanio si combinava con qualche componente gassoso dell’atmosfera circostante, anche se la reazione non avveniva in modo sufficientemente violento perché la si potesse definire una combustione.

«Se siamo abbastanza lontani dal centro del raggio emesso dal radiofaro, scendiamo pure sulla superficie» disse infine l’investigatore. «Vorrei conoscere la percentuale di atmosfera che reagisce in questo modo, e perché la misura sia attendibile devo partire dalla massima pressione atmosferica disponibile.»

Feth Allmer gli rivolse l’equivalente di un cenno d’assenso.

«Siamo a circa tre chilometri dal centro» disse. «Posso scendere dove volete. Preferite che il portello sia chiuso o aperto?»

«Chiuso» rispose Ken. «Lasciamo che il campione si raffreddi un poco. In questo modo, dopo l’atterraggio, potremo ritornare alla pressione normale senza consumare tutto il nostro campione. Poi lo riscalderò di nuovo, con il portello chiuso, e misurerò la quantità d’aria consumata.»

Feth gli rivolse un cenno d’assenso; si udì un debole fischio quando la sonda cominciò a scendere in caduta libera. Come le altre che l’avevano preceduta, anche quella aveva microfono e altoparlante, e Allmer non si era preso la briga di toglierli. Sei chilometri, cinque, quattro, tre, due, uno… con indifferenza, il meccanico arrestò la discesa quando l’altimetro indicò cinquanta metri, e da quel momento in poi fece scendere la sonda a velocità molto ridotta, con grande cautela. A un certo punto, indicò con la punta del tentacolo un altro quadrante, e Ken, dopo qualche istante, capì cosa intendesse dire. La sonda era già giunta a un livello più basso di quello del radiofaro.

«Suppongo che il trasmettitore si sia posato in cima a una montagna, e che la nostra sonda stia adesso scendendo in una valle» disse Feth, senza distogliere gli occhi dal suo lavoro.

«Ne sono convinto anch’io» rispose Ken. «Abbiamo sempre pensato che questa zona si trovasse in una parte piuttosto accidentata del pianeta. E la cosa mi pare positiva: corriamo meno rischi di essere visti da lontano. Ma che cosa succede? Non siete ancora riuscito a toccare terra?»

L’altimetro aveva raggiunto lo zero, ma la discesa continuava lo stesso. Negli ultimi secondi si erano uditi dei deboli fruscii, che adesso erano stati sostituiti da forti rumori di oggetti spezzati o strappati. La discesa infine si arrestò: a quanto pareva, la sonda aveva trovato un ostacolo sufficiente a riflettere le onde radar e a reggere il suo peso. Ma quando Allmer provò ad applicare un po di spinta diretta verso il basso, le lacerazioni e i crepitii continuarono per alcuni momenti. Alla fine, comunque, tutto terminò: sia il movimento, sia il rumore, anche quando Allmer provò a raddoppiare e a quadruplicare per la durata di parecchi secondi la spinta verso il basso. Tolse l’alimentazione al motore e si rivolse a Ken, con un gesto equivalente a un’alzata di spalle.

«Pare che abbia toccato il suolo, anche se non so fino a che punto lo si possa chiamare suolo… e cioè come quello che conosciamo noi. Comunque, non sembra che si possa scendere più in basso. Questo è l’interruttore per l’apertura del portello, nel caso non lo sapeste. Adesso, fate voi, e spero che non vi dia fastidio se resto qui a guardare. Penso che tra poco avremo qui anche il padrone; a questo punto dovrebbe già essere entrata in orbita anche la sua sonda.»

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