Con sua sorpresa, il tempo migliorò all’improvviso poco prima di giungere sull’obiettivo. Le nubi si dissiparono — ed ecco stendersi sotto di loro, a dritta, un’immensa muraglia nera alta quasi un chilometro. Era così grande che creava una sorta di microclima: infatti deviava il vento, così che sottovento di essa vi era una zona in cui l’aria era ferma e immobile.
Era — si capiva subito — il monolito, ai piedi del quale vi erano centinaia di strutture emisferiche di un bianco spettrale, rilucenti ai raggi della palla infuocata bassa sull’orizzonte che un tempo era stata Giove. A Floyd ricordavano le cellette degli alveari, ma fatte di neve; avevano qualcosa che evocava antichi ricordi della Terra. Ma ci arrivò prima van der Berg.
«Sono degli igloo» disse. «Stesso problema, stessa soluzione. Non vi è nessun altro materiale da costruzione disponibile, tranne la roccia, che sarebbe molto più difficile lavorare. Inoltre la bassa gravità è di vantaggio: alcune di quelle cupole sono molto grandi. Chissà chi ci abita…»
Erano ancora troppo lontani per vedere qualcosa muoversi nelle strade della piccola città ai confini del mondo. E quando furono più vicini notarono che non vi erano strade.
«È una Venezia fatta di ghiaccio» disse Floyd. «Solo igloo e canali.»
«Sono anfibi» rispose van der Berg «Avremmo dovuto aspettarcelo. Chissà dove sono.»
«Forse gli abbiamo fatto paura. La Bill Tee è molto più rumorosa di quanto non sembri a noi qui dentro.»
Van der Berg stava filmando e contemporaneamente riferendo alla Galaxy, così che non rispose subito. Poi disse: «Non possiamo andarcene senza cercare di stabilire un contatto. Aveva ragione… qui c’è qualcosa di molto più importante del Monte Zeus.»
«E di molto più pericoloso, forse.»
«Non vedo alcun segno di tecnologie avanzate… No, mi sbagliavo, ecco là qualcosa che sembra un’antenna parabolica del XX secolo! Può avvicinarsi di più?»
«E farmi sparare addosso? No di certo. Inoltre cominciamo a essere a corto di carburante. Ne abbiamo per altri dieci minuti soltanto, se vogliamo tornare a casa.»
«Non potremmo atterrare e dare un’occhiata? Laggiù c’è una roccia larga e piatta. Ma dove diavolo saranno tutti quanti?»
«Sono spaventati a morte, come me. Ancora nove minuti. Farò un passaggio sulla città. Lei filmi tutto quello che può… OK, Galaxy, qui tutto a posto, solo che abbiamo parecchio da fare. Chiamo io tra poco.»
«Ho capito… Quella non è un’antenna radar, ma qualcosa di altrettanto interessante. È puntata dritta su Lucifero… È una fornace solare! Molto ragionevole, in un posto in cui il sole non si sposta mai nel cielo… e dove non si può accendere un fuoco.»
«Otto minuti. Peccato che tutti siano corsi a chiudersi in casa.»
«O a tuffarsi nell’acqua. Diamo un’occhiata a quel grande edificio laggiù in mezzo a quello spiazzo. Si direbbe un edificio pubblico.»
Van der Berg indicò una costruzione molto più grande delle altre, e di forma diversa; era una serie di cilindri verticali simili a enormi canne d’organo. Inoltre non era bianca in modo uniforme come gli altri igloo, ma era tutta ricoperta di segni multiformi e complessi.
«Arte di Europa!» gridò van der Berg. «È una specie di murale! Più vicino! Più vicino! Bisogna riprenderla!»
Floyd si abbassò… ancora… e ancora di più. Pareva essersi del tutto dimenticato che il carburante era appena sufficiente per far ritorno alla Galaxy; e a un tratto van der Berg si rese conto, incredulo e stupito, che stava per atterrare.
Lo scienziato distolse gli occhi dal suolo che si avvicinava rapidamente e guardò il pilota. Sebbene continuasse a pilotare la Bill Tee con ovvia competenza, Floyd pareva come ipnotizzato, e fissava con sguardo assente davanti a sé.
«Che cosa succede, Chris?» gridò van der Berg. «Si rende conto di che cosa sta facendo?»
«Certamente. Non lo vede?»
«Vedere che cosa?»
«Lui, quell’uomo in piedi sul cilindro più grande. E non ha la maschera a ossigeno!»
«Non faccia l’idiota, Chris! Non c’è nessuno lassù!»
«Ci sta guardando. E ci sta facendo dei gesti. Mi sembra di cono… Oh, mio Dio!»
«Non c’è nessuno! Nessuno! Riprenda quota!»
Floyd non gli badò. Era perfettamente calmo, e stava atterrando con la stessa abilità di quando, ai piedi del Monte Zeus, aveva spento il motore, esattamente nell’istante in cui toccava il suolo.
Floyd controllò gli strumenti di bordo e impostò gli interruttori di sicurezza. Solo quando ebbe completata la prescritta sequenza di atterraggio tornò a guardar fuori con un’espressione perplessa ma felice sul volto.
«Salve, nonno!» disse sottovoce, rivolgendosi a qualcuno che van der Berg non poteva vedere.
Nemmeno nei suoi incubi più spaventosi il dottor van der Berg aveva mai immaginato di perdersi su un mondo alieno rinchiuso in un minuscolo abitacolo e con un pazzo come unico compagno. Ma se non altro Chris Floyd non era violento, o almeno così sembrava; e forse lo si poteva convincere a decollare e a far ritorno alla Galaxy…
Floyd aveva sempre lo sguardo fisso nel vuoto, e di quando in quando muoveva le labbra come impegnato in una conversazione silenziosa. La città aliena era sempre completamente deserta, e pareva quasi che fosse stata abbandonata da secoli. Tuttavia a un certo punto van der Berg notò segni di occupazione recente. Sebbene i retrorazzi della Bill Tee avessero spazzato via la sottile coltre di neve immediatamente intorno a loro, poco più lontano lo spiazzo era rimasto innevato. Era come una pagina strappata da un libro: coperta di segni e di geroglifici di cui riusciva a leggere soltanto alcuni.
Qualcosa di pesante era stato trascinato — o si era mosso con i suoi mezzi — attraverso lo spiazzo. Infatti dall’ingresso, ora chiuso, di un igloo si dipartiva la traccia inequivocabile di un veicolo provvisto di ruote. Troppo lontano per capire bene che cosa fosse, si vedeva un piccolo oggetto: forse un contenitore buttato via. Forse gli abitanti di Europa erano maleducati come gli esseri umani…
Questi segni di vita erano inequivocabili, e preoccupanti. Van der Berg ebbe l’impressione di essere sorvegliato da migliaia di occhi — o di altri organi di senso — senza sapere se gli invisibili osservatori fossero amichevoli od ostili. Magari erano solo indifferenti, e non facevano altro che aspettare che gli intrusi se ne andassero in modo da poter riprendere le loro misteriose attività.
Chris parlò rivolgendosi a un interlocutore invisibile.
«Arrivederci, nonno» mormorò con un lieve accento di tristezza. E rivolgendosi a van der Berg aggiunse in tono del tutto normale: «Dice che ora dobbiamo andarcene. Lei penserà che io sia impazzito, non è vero?»
Meglio non rispondere niente, disse van der Berg dentro di sé. Comunque, un attimo dopo ebbe altro a cui pensare.
Floyd infatti stava studiando con ansia i dati che il computer di bordo gli forniva. A un certo punto disse con un inequivocabile tono di scusa: «Atterrando ho consumato più carburante di quello che pensavo. Dobbiamo cambiare itinerario».
Era, non poté fare a meno di pensare van der Berg, un eufemismo per dire: non possiamo far ritorno alla Galaxy. A malapena si trattenne dall’esclamare: «All’inferno tuo nonno!» e chiese invece: «E allora che cosa facciamo?».
Floyd studiava la mappa battendo i tasti del computer.
«Restare qui non possiamo…» (E perché no? pensò van der Berg. Visto che dobbiamo morire, perché non impiegare il poco tempo che ci rimane per capire quanto più possiamo?) «… quindi bisogna trovare un punto dove la navetta della Universe ci possa venire a prendere facilmente.»
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