«Bene. Ottimo. E impara a dire personale, non uomini. Risparmiami una predica, ti spiace?»
Cavendish continuò per un po’ a giocherellare con cibo e posate, poi si arrese. Le emicranie arrivavano a ondate, imprevedibili, e nulla sembrava poterle smorzare. Lo scienziato si era trascinato, barcollante, dall’ufficio di Jo al centro medico, e per due ore un giovane medico della marina lo aveva visitato.
«Spesso le emicranie sono provocate da stress emotivi» aveva detto il giovanotto, con un’aria da direttore delle pompe funebri. «Forse sta lavorando troppo.»
Cavendish aveva accettato la ricetta, l’aveva appallottolata e gettata nel primo cestino dei rifiuti all’esterno dell’edificio.
Non sarebbe servita a niente, lo sapeva.
Restò un attimo indeciso sui gradini del miglior ristorante dell’isola (gli scienziati gli avevano attribuito solo meno una stella), poi decise di fare un giro sulla spiaggia. Il mal di testa era scomparso, per il momento, ma il ricordo dell’emicrania aveva scatenato in lui un’antica paura che ora gli percorreva ogni nervo del corpo.
Il sole sfiorava l’orizzonte, sfera gigantesca di oro incandescente. Il cielo era di un color rame acceso, con poche nuvole oro e porpora sospese a ovest.
Cavendish si sentiva stanchissimo. Il suo corpo era un nucleo di dolore. Gli occhi gli bruciavano per la mancanza di sonno. Eppure, qualcosa lo costringeva a camminare sulla spiaggia. Procedeva lentamente, come chi cerchi un determinato posto senza sapere quale sia. Il sole scomparve; le ombre della sera coprirono il mondo.
Cavendish oltrepassò il molo, col passo automatico di una sentinella, di un automa; raggiunse il lato dell’isola affacciato direttamente sull’oceano, dove le scogliere erano vicine e la spuma dei marosi emergeva candida dalle tenebre.
Qualcuno sedeva sotto gli alberi della spiaggia. Qualcuno che lo attendeva.
«Buonasera» disse Maria Markova.
«Sì» rispose Cavendish.
Maria aveva ai piedi, aperta, la valigetta con l’apparecchiatura elettronica. La luce rossa splendeva nell’ombra.
«Rapporto.»
Senza esitazioni, Cavendish iniziò: «Alla riunione hanno partecipato il professor McDermott, l’accademico Zworkin, il dottor Thompson…»
Circa un’ora dopo, sedevano tutti e due sulla sabbia. Maria teneva la schiena appoggiata a un albero; Cavendish era a gambe incrociate. Era troppo buio per vedere il dolore nei suoi occhi.
«…e mi ha consigliato di consultare uno psicologo» terminò l’inglese.
Maria restò in silenzio per un po’, a riflettere. «Nient’altro?» chiese.
«No… A parte Schmidt.»
«Schmidt? L’olandese?»
«Sì. Corre voce che stia diventando drogato. Di sicuro c’è che in fatto di lavoro fino a oggi non ha fatto niente.»
«Mi parli di Schmidt. Mi racconti tutto quello che sa di lui.»
Cavendish ubbidì.
«Questo giovanotto potrebbe esserci utile» disse Maria quando lui ebbe terminato. «Si guadagni la sua amicizia. Giochi sul suo astio per gli americani. Gli faccia credere che è Stoner che gli sta rubando la gloria.»
«Stoner?»
Maria annuì nel buio. «Stoner. È lui che dobbiamo fermare. E Schmidt potrebbe essere il mezzo per fermarlo.»
«Io… non capisco» disse Cavendish.
«Non è necessario che lei capisca. L’importante è ubbidire.»
«Sì.»
«Benissimo» disse Maria. «Lei si è comportato bene. Ora può andare.»
«Sì.» Cavendish si alzò lentamente. Quando si trovò sotto il chiarore della luna, non più nascosto dall’ombra degli alberi, Maria vide per la prima volta la disperazione che faceva del viso del vecchio una mostruosa maschera di morte.
Maria trattenne il respiro. Maledicendosi per la propria debolezza, congedò Cavendish con un gesto quasi rabbioso. Rigido, distrutto, l’inglese se ne andò senza aggiungere parola.
Quando lei spense la macchina e chiuse la valigetta, le tremavano le mani. E la valigetta le parve più pesante che mai, mentre tornava al suo bungalow.
Camp David
La piccola stanza rustica rigurgitava di giornalisti, Non erano state ammesse telecamere, ma i fotografi assediarono l’addetto stampa che stava raggiungendo il podio.
«Okay» disse l’addetto stampa, aggiustando il microfono. «Ecco il comunicato di oggi.»
“Stamattina il presidente ha fatto colazione con il reverendo Willie Wilson, l’evangelista urbano. La missione evangelica del reverendo Wilson ha organizzato per la sera di martedì prossimo un raduno allo stadio RFK, e il reverendo Wilson ha invitato il presidente a intervenire. Il presidente ha purtroppo dovuto declinare l’invito a causa dell’urgenza di altri impegni…”
«Per esempio, l’andamento delle primarie» sussurrò un reporter, a voce abbastanza alta perché tutti sentissero e ridessero. L’addetto stampa fece una smorfia, poi tornò al comunicato.
«Il presidente si è congratulato con il reverendo Wilson per l’ottimo lavoro a favore dei ceti meno abbienti delle nostre città. L’ormai famoso messaggio “Scrutate il cielo” non è stato, ripeto, non è stato, discusso.»
L’addetto stampa fissò giornalisti e fotografi.
«Tutto qui?»
«Tutto qui. Questa non è una conferenza stampa. Non risponderò ad alcuna domanda. Copie del comunicato saranno disponibili tra una decina di minuti.»
Stoner e Markov stavano cenando assieme in mensa quando entrò Schmidt.
«Un caso triste» mormorò Markov, bevendo un cucchiaio di brodo.
«Cosa vuoi dire?» chiese Stoner.
«Non lo sai? Schmidt passa le giornate a imbottirsi di narcotici, invece di lavorare.»
Stoner guardò il giovane astronomo, che si stava mettendo in fila col vassoio.
«Narcotici? Cioè erba?»
«Marijuana, altre cose. A quanto ne so, narcotici e anfetamine qui si vendono a chili.» Markov scosse la testa, in segno di netta disapprovazione.
«Allora è per questo che non è servito a niente da quando è arrivato» disse Stoner. «Forse dovremmo ingabbiarlo.»
«Ingabbiarlo?»
«Sbatterlo in prigione. Sta facendo una cosa illegale.»
«Sul serio?» Markov era sorpreso. «Credevo che la cultura della droga fosse parte integrante della decadente società capitalista.»
«Può anche essere» ribatté Stoner, gli occhi sempre puntati su Schmidt «ma questo non significa che sia legale.»
«Le ipocrisie del capitalismo.»
Stoner guardò il russo: stava sorridendo.
Posando di nuovo lo sguardo su Schmidt, vide che il giovane astronomo aveva riempito il vassoio, era arrivato alla cassa, aveva scambiato poche parole con la cassiera, un’indigena delle Marshall; poi, rosso in viso, aveva lasciato il vassoio lì ed era uscito dalla mensa.
«Cosa fa?» si chiese Stoner.
Markov scrollò le spalle. «Probabilmente ha speso tutto in droga e si è scordato di non avere niente in tasca per pagarsi la cena.»
Edouard Reynaud sedeva allo scrittoio della sua casa su ruote, cercando di stendere una bella lettera per il cardinale Benedetto sugli ultimi sviluppi del PROGETTO JUPITER.
Lasciò cadere la penna, si sfregò gli occhi. Non gli venivano le parole. Dopo quello che Schmidt gli aveva dato quel pomeriggio, aveva ancora la testa vuota. E poi, odiava scrivere. Le equazioni sono così eleganti e precise ma le parole sono ambigue e piene di trappole.
Alzando gli occhi, vide che era già sera avanzata. La piccola lampada dello scrittoio era l’unica luce accesa nella casa.
«Mi perderò la cena» borbottò fra sé. Il cibo di quell’isola derelitta rendeva più facile rinunciare ai peccati di gola.
Un colpo alla porta fece tremare la casa su ruote. Andò ad aprire e si trovò davanti Hans Schmidt, gli occhi spenti, l’aria preoccupata.
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