«E noi abbiamo anche la nostra stazione spaziale Salyut in orbita, con due cosmonauti a bordo. Potremmo mandarli…»
«No» scattò Stoner. «Sono io quello che parte.»
Markov ribatté: «Capisco che a te farebbe piacere partire, ma…»
«Niente ma. Ci occorre qualcuno che sappia cosa cercare. È impossibile insegnare a un cosmonauta tutto quello che dovrebbe sapere. Non si può trasformare un astronauta in astrofisico, non certo in un paio di mesi. Io sono l’unica scelta logica per questa missione. Mandare qualcun altro sarebbe stupido quanto mandare una sonda automatizzata, con la sua programmazione limitata.»
Tirandosi la barba, Markov disse: «La tua logica è impeccabile. Senz’altro sei al corrente di tutto quello che si sta facendo qui. Forse potremmo farti partire su un missile sovietico, assieme a uno dei nostri cosmonauti.»
Stoner annuì. «Mi andrebbe benissimo.»
Jo disse: «Però, se parti… Sarà una missione organizzata molto in fretta, vero?»
«Esatto. Se Big Mac avesse previsto sin dall’inizio la missione, le cose sarebbero molto più facili per noi.»
Lei scosse la testa. «Mi pare enormemente pericoloso.»
Passavano sotto un lampione: Stoner vide, sul volto di Jo, vera preoccupazione.
Le sorrise. «Non preoccuparti. Guidare la macchina a Boston è molto più pericoloso.»
Jo annuì, ma non sembrava convinta.
«Non mi credi?»
Jo rifletté un attimo, mentre superavano le case su ruote e gli edifici in cemento, grigi e sgraziati, che ospitavano gli uffici.
«T’importa davvero quello che penso? Tu hai già deciso di andare incontro al nostro visitatore nello spazio.»
«Devo andare» disse Stoner. «Devo.»
Intervenne Markov: «Ci servirà qualcun altro che ci aiuti nella nostra piccola rivoluzione.»
«Qualcun altro?» chiese Stoner.
«Sì. Qualcuno con tanta autorità da poter scavalcare le obiezioni del professor McDermott, quando si scoprirà cosa stiamo facendo.»
«Che ne dici del vostro capogruppo, Zworkin?» propose Jo.
«No» rispose Markov. «È troppo anziano e prudente per opporsi a McDermott. Pensavo al cosmologo, Reynaud.»
«Il monaco?»
«Sì. È in contatto diretto col Vaticano, il che può essere estremamente utile dal punto di vista politico.»
«Il Vaticano? Che influenze politiche ha il Vaticano?»
Markov rise piano. «Una volta, il nostro caro Giuseppe Stalin si è posto la stessa domanda… E, per sua disgrazia, ha trovato la risposta.»
«Reynaud mi sembra un pappamolla» disse Stoner. «Non ha il fegato di mettersi contro Big Mac. Che ne dite di Cavendish?»
«È malato» rispose Jo.
«Però è della NATO, e ha ottimi collegamenti con le alte sfere, da quello che sento.»
«Non credo che sarebbe l’uomo per noi» disse lentamente Markov.
«E poi è malato» ripeté Jo. «Sta male sul serio.»
«Comunque, potrei parlargli» disse Stoner.
Markov obiettò: «Però non devi essere tu a metterti in contatto con lui, Keith. Il tuo antagonismo con Big Mac è troppo noto.»
«E allora?»
«Gli parlerò io» disse Jo, «Ma non credo che servirà.»
«E io avvicinerò Reynaud» disse Markov.
In quel momento stavano superando i bungalow. Più in giù, Stoner vide un’altra coppia che camminava verso la spiaggia.
«Ah, una luce alla mia finestra» disse Markov. «La mia cara moglie mi starà certo aspettando.»
Lo accompagnarono al suo bungalow.
«Volete entrare a bere un goccio?» chiese Markov.
Jo guardò Stoner, che scosse la testa. Anche la ragazza rifiutò.
«Benissimo, allora.» All’improvviso, Markov strinse la destra di Stoner fra le sue due mani. Fissando l’altro negli occhi, il russo disse: «Forze enormi sono all’opera contro di noi.»
«Lo so» disse Stoner.
«Più di quante tu non sappia» insistette Markov.
Stoner annuì piano. «Non ha importanza.»
«Sì. Combatteremo la giusta battaglia. Assieme. E contro tutti!»
«Maledettamente giusto.»
«Keith… Sono fiero di essere tuo amico.»
«E io sono fiero di poter dire lo stesso, Kirill. Sconfiggeremo quei bastardi, vedrai.»
«Sì. Certo.» Markov si girò verso Jo, le prese una mano, la portò alle labbra. «E tu, dolce signora… Per te, qualsiasi uomo affronterebbe a cuor leggero il plotone d’esecuzione.»
«Sei molto dolce» disse Jo, con un sorriso «ma troppo melodrammatico.»
«Ah, sì, lo so. È la nostra maledizione nazionale. Noi russi siamo un popolo emotivo. Sentiamo le cose con tutto il nostro essere.» Markov era leggermente confuso, imbarazzato. Si costrinse a sorridere. «Buonanotte. Forse domani il nostro visitatore risponderà ai segnali e noi non dovremo dare il via a nessuna rivoluzione, dopo tutto.»
«Buonanotte» rispose Stoner.
Markov salì i gradini di cemento, entrò in casa. Stoner s’incamminò con Jo verso l’hotel.
«È un tipo simpatico» disse. «Mi piace.»
«Anche a me.»
«Credi davvero che Reynaud potrebbe esserci utile?»
«Più di Cavendish» rispose Jo. «Quel poveraccio dovrebbe stare in ospedale.»
«Comunque gli parlerai, d’accordo? È importante.»
«Più importante della sua salute?»
Lui la scrutò.
«Certo che è più importante della sua salute! È più importante di tutto il resto…»
«Per te, Keith» disse Jo. «È importante per te. È il tuo sogno, la tua ossessione.»
Per un attimo, lui non rispose. Poi, dolcemente: «No, ti sbagli, Jo, non è un’ossessione: è la mia vita.»
L’ipotesi scientifica ormai accettata che l’universo abbondi di civiltà avanzate, simili a quella umana, viene messa in discussione da una cerchia ristretta ma in continuo aumento di astronomi.
Mentre la maggioranza degli scienziati continua a ritenere che l’intelligenza extraterrestre debba essere comune in un universo con bilioni e bilioni di stelle, i dissenzienti rimettono in discussione l’ipotesi. Anzi, asseriscono, è del tutto possibile che la nostra civiltà sia l’unica esistente…
Il dottor Michael H. Hart, della Trinity University di San Antonio, Texas, ha completato un’analisi computerizzata di pianeti ipotetici, basata sulle caratteristiche indispensabili per la comparsa di civiltà avanzate come la nostra. Le sue conclusioni sono che la vita intelligente debba essere tutt’altro che comune, anzi estremamente rara, e che forse la civiltà terrestre possa essere l’unica del cosmo…
“New York Times” — 24 Aprile 1979
Il Circolo Ufficiali era tranquillo, fresco, in penombra. Non erano ancora le sei, ma il locale si stava lentamente riempiendo dei clienti in attesa di cenare. Stoner sedeva cupo a un séparé d’angolo, le spalle alla parete.
Entrò Markov, scrollò la testa, aspettò che gli occhi si abituassero alla penombra dopo la luce accecante del sole. Alla fine vide Stoner e lo raggiunse al separé.
«Prenditi da bere» gli disse Stoner. «Fino alle sei non c’è servizio ai tavoli.»
Markov andò al bar, ordinò un vodka tonic e tornò al separé.
«Com’è andato l’incontro col professor McDermott?» chiese, sedendosi di fronte all’americano.
Stoner gli indicò i due bicchieri vuoti di birra, e il terzo quasi vuoto che aveva davanti.
«Così terribile?» disse Markov.
«Kirill, siamo nelle mani di fanatici» rispose Stoner. «Big Mac è paranoico, e Tuttle è un fanatico religioso.»
Markov bevve un sorso. «Raccontami.»
Stoner cominciò a spiegargli.
Maria Markova era seduta in poltrona, nel soggiorno del bungalow. Aveva in grembo una lettera da Mosca, appena arrivata con l’aereo che una volta la settimana portava la corrispondenza dall’URSS. In mano teneva un oggetto nero, oblungo, all’incirca della forma e delle dimensioni di una calcolatrice tascabile.
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