La lettera, scritta a mano in impeccabili caratteri cirillici, era firmata: “Con affetto, tua cugina Anna”. La cugina Anna non esisteva. La calcolatrice tascabile era un computer crittografico, e Maria lo stava usando per decifrare gli ultimi ordini di Mosca.
Il messaggio era secco, brutale: impedire agli americani di preparare una missione di rendez-vous. Servirsi di tutti i mezzi disponibili.
Maria spense l’apparecchietto e si alzò pesantemente. Bruciò la lettera sul lavandino della cucina, poi andò in camera da letto e rimise il computer al suo posto nella valigetta.
Servirsi di tutti i mezzi disponibili.
Il che significava Cavendish. Era il suo unico strumento, la sua unica arma. Maria piombò a sedere sul letto, a fianco della valigetta. Il materasso scricchiolò e si abbassò.
Cavendish. Lei chiuse gli occhi, ma continuò a vedere lo sguardo di dolore assoluto sul viso distrutto del vecchio. Ed era successo quando si era limitata a chiedergli informazioni. Adesso, in qualche modo, doveva “usarlo”, e punirlo se avesse opposto resistenza.
Maria rabbrividì.
Il comportamentismo era iniziato col lavoro di Pavlov sui cani, a quanto aveva studiato Maria. Gli psicologi occidentali avevano sviluppato il concetto nella teoria delle motivazioni: il soggetto va premiato quando fa la cosa giusta, e il premio gli deve essere tolto se sbaglia. Un approccio pietistico al problema, che comportava enormi sprechi di tempo e di pazienza in cambio di risultati miseri.
I superiori di Maria avevano scoperto da parecchio che il principio inverso è più efficace e più sicuro: punire il soggetto al minimo sbaglio, e annullare la punizione solo quando l’obbedienza è assoluta. In effetti, era lo stesso principio scoperto da Pavlov. Però, sfruttando la punizione anziché il premio, si ottenevano risultati migliori, e più in fretta. Ovviamente, gli effetti a lungo termine sul soggetto erano micidiali, ma a questo era impossibile rimediare.
Maria sfiorò i tasti della sua apparecchiatura elettronica. I microelettrodi erano stati trapiantati nel cervello di Cavendish molti anni prima, però funzionavano ancora, ed erano talmente piccoli che in tutto quel tempo nessuno ne aveva notato la presenza.
Gli psicologi occidentali avrebbero inserito gli elettrodi nel centro di piacere del cervello, per premiare le buone azioni di Cavendish con un flusso di piacere elettronico. I chirurghi di Mosca, invece, erano stati più accorti. Maria poteva scatenare un’ampia gamma di effetti nel cervello di Cavendish, dall’insonnia al dolore più atroce.
“Se rifiuterà di aiutarmi” pensò ormai in preda all’apprensione “sarò costretta a torturarlo.”
Markov finì il secondo vodka tonic e rimise il bicchiere sul tavolo di formica, in perfetta corrispondenza dell’impronta ad anello che aveva lasciato.
«Da rivoluzionario a rivoluzionario» disse a Stoner «secondo me siamo in un vicolo cieco.»
«È la tua meditata opinione, giusto?»
Con un sospiro d’infelicità: «Sì.»
Stoner si alzò, raggiunse un po’ traballando il bar, tornò con altre due birre e due vodka tonic.
«Tu prevedi un lungo assedio» disse Markov, mentre Stoner depositava i bicchieri sul tavolo.
«Il vero rivoluzionario dev’essere pronto a lunghi assedi» rispose gravemente Stoner. «E ai vicoli ciechi.»
«Ne abbiamo già a sufficienza» disse Markov.
«In una buona causa, non esistono sconfitte, solo ritardi.»
Markov levò il bicchiere. «Alla rivoluzione.»
«Arriveremo all’inevitabile trionfo» disse Stoner, citando Roosevelt «per cui ci aiuti Iddio.»
«Hai piani per cena?» chiese Markov, dopo essersi staccato il bicchiere dalle labbra.
Stoner scosse la testa.
«Prevedi di mangiare qualcosa, stasera?»
«Presumo di no. Non c’è fretta.»
«Certo.»
«Hai avuto successo nell’approccio al nostro buon monaco, fratello Reynaud?» chiese Stoner.
«Se ti portassi buone notizie, me ne starei qui a bere con te in questo stato d’animo lugubre?»
«Lugubre? Allora sei proprio un linguista, eh?»
«Ogni tanto.»
«Lugubre.» Stoner rigirò l’aggettivo nella mente. «Ecco l’inverno del nostro scontento…»
Markov levò il bicchiere senza troppo entusiasmo. «La nostra rivoluzione non sta andando bene, temo.»
«Be’, nemmeno la rivoluzione americana è partita senza intoppi, amico mio. Siamo nel nostro periodo Valley Forge.»
Il viso di Markov si schiarì un poco. «Giusto. Anche voi siete stati una nazione rivoluzionaria.»
«Siamo stati? Noi “siamo” una nazione rivoluzionaria» disse Stoner. «Abbiamo inventato il telefono, no? Non è stata una rivoluzione? E l’aereo, il computer, l’orologio di Topolino… Quella sì che è stata una “vera” rivoluzione, amico mio.»
«Credevo che fossimo stati “noi” a inventare il telefono» disse Markov, grattandosi la barba. «Sono sicuro di averlo letto sulla “Pravda”.»
«Okay, ti lascio il telefono. Però noi abbiamo inventato le cene già pronte per quando si guarda la televisione.»
«Una vera rivoluzione.»
«E il chewing gum.»
Brindarono al chewing gum.
Jo allontanò la poltroncina dalla consolle del computer e guardò il grande orologio alla parete del Pozzo. Erano appena passate le sei.
«Sono stufa marcia» disse alla programmatrice che le sedeva accanto. «Nove ore senza interruzioni, a parte un sandwich puzzolente.»
«E come prova di tanto lavoro hai solo qualche unghia rosicchiata» disse la programmatrice.
Jo le sorrise. “È per una buona causa” si ripeté. Tutti i calcoli extra sulla traiettoria della nave aliena erano lavoro in più, ma erano necessari per la missione di rendez-vous. “Ammesso che possa mai partire” si disse.
«Senti» disse alla programmatrice «se non ti pagano gli straordinari non dovresti farli. Saltare il pranzo è stato più che sufficiente.»
«Faccio solo quello che mi dicono» rispose l’altra, alzandosi e avviandosi alla toilette.
Qualche minuto dopo, Jo era in strada, alla luce calda del sole. Decise di fare un salto al Circolo Ufficiali prima di cena.
Non appena i suoi occhi si abituarono alla penombra del locale, vide Stoner e Markov al separé d’angolo. Anzi, prima ancora di vederli li sentì.
«Alla gloriosa rivoluzione d’ottobre e a tutti i popoli rivoluzionari del mondo!» stava urlando Markov.
Stoner alzò gli occhi all’avvicinarsi di Jo. La ragazza chiese: «E una festa privata o aperta a tutti?»
Markov rispose immediatamente: «Vieni! Siediti! Unisciti al nostro funerale.»
«Funerale?» Jo si accomodò a fianco del russo.
Stoner alzò il bicchiere dal tavolo, salutò l’arrivo di Jo.
«Celebriamo il quattro luglio con qualche mese d’anticipo.» La voce di Stoner era un po’ impastata. «Credo.»
«Ma perché definirlo un funerale?»
«Melanconia russa.»
«E poi c’è la gloriosa rivoluzione di novembre» disse Stoner, ignorando del tutto le loro parole. «Ah, amici miei, quella è stata la vera svolta. Quando l’immortale Lenin è apparso alla stazione di Pietroburgo, il mondo è cambiato.»
Al loro tavolo si avvicinò una cameriera indigena dall’aria infelice, solida e robusta come un sacco di cemento. «Ancora da bere?» chiese.
Jo ordinò una pina colada. Markov era passato alla vodka liscia con ghiaccio. Stoner teneva duro con la birra.
Quando arrivarono i bicchieri, Stoner disse: «Penso che dovremmo brindare ai marine degli Stati Uniti, ai coraggiosi uomini che hanno strappato quest’isola ai fanatici difensori giapponesi nel novecentoquaranta e qualcosa.»
Scrutando prima l’uno e poi l’altro, Jo chiese: «Cosa sta succedendo?»
«Vuoi proprio saperlo?» ribatté Stoner.
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