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Brian Stableford: Il giogo del tempo

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Brian Stableford Il giogo del tempo

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Specialista di mondi esotici e contaminati, Brian M. Stableford ci porta in un tempo in cui l’umanità sarà tornata alla superstizione e alla barbarie. Ma in quel mondo d’ombre circolano strane voci sulla prodigiosa scienza degli antichi. Bisogna ritrovare il Viaggiatore del tempo! Una pericolosa avventura aspetta Matthew e John, due pellegrini disposti a tutto pur di trovare quel mitico superstite… Il salvatore.

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“Sai come sono arrivati fino alle stelle gli uomini? Hanno preso un minuscolo pezzo di questo mondo, l’aria, la materia, gli elementi della nostra Terra, e li hanno rinchiusi in una bara d’acciaio. L’hanno spinta fino alla stella più vicina per poi risospingerla indietro dicendo che avevano conquistato le stelle. Senza quel piccolo frammento terrestre chiuso insieme a loro nella scatola metallica, tutti quegli uomini sarebbero morti. Non potevano vivere nello spazio, né nei mondi delle stelle, ma solo sulla Terra.

“Vedi, per conquistare devi fare tuo qualcosa, devi renderlo parte di te, trasformarlo in qualcosa che puoi controllare e dirigere. Non vi saremmo mai riusciti: solo la Terra ci apparteneva, nient’altro. Ne abbiamo troppo bisogno, come le prime forme di vita avevano bisogno del mare. Persino quando la vita emerse dall’oceano manifestandosi sulla terraferma la terra non fu conquistata. Il dipnoo non conquistò la terra, né lo fecero gli anfibi. Furono i rettili i veri conquistatori, perché per primi svilupparono un uovo con guscio isolante che li liberò dalla dipendenza dall’oceano, la loro dimora ancestrale. C’è una grande differenza, John, tra andare da qualche parte e appartenervi. L’uomo non può conquistare le stelle perché non riuscirà mai a staccarsi dal pianeta in cui è nato. Quando un uomo va nei mondi delle stelle, deve portare con sé la Terra. Tutte le grandi conquiste, John, saranno prerogativa di qualcosa diverso da noi. La sola causa che il Genere Umano può servire è quella di dare vita all’Uomo Futuro.”

Da tempo ormai John si era immusonito. Lo faceva spesso quando nessuno condivideva il suo punto di vista o ammetteva la sensatezza dei suoi argomenti. Non poteva mettersi a discutere con un uomo così intelligente e loquace come Padre Alvaro. Nonostante la sua ostentazione di maturità e di fiducia, John sapeva così poco, mentre Alvaro conosceva così tanto, e aveva avuto vent’anni o più per preparare le sue argomentazioni. Non si poteva dire che Alvaro fosse saggio, ma era un uomo determinato che aveva ben chiaro ciò in cui credeva, ciò che voleva fare della sua vita e perché.

Per riempire quell’imbarazzante silenzio e per mascherare il broncio di John, chiesi ad Alvaro: — Come pensi si sentissero gli uomini che lanciarono scatole di ferro verso le stelle? Cosa credi che pensarono di se stessi, quando atterrarono su mondi nuovi di nuovi soli?

— Be’ — rispose Alvaro come se fosse ovvio — si sentirono dei conquistatori, che altro?

“E questo non è sufficiente?” mi domandai. “Non è tutto quello che in realtà vuole il ragazzo? E noi, vecchi ed esperti delle cose del mondo, abbiamo davvero il diritto di mettere in discussione i suoi sogni?” Ma non parlai. Dirlo avrebbe solo fatto soffrire maggiormente John, e poi non stava a me criticare Alvaro.

— Allora, Lucciola — dissi tentando di scuotere John dal suo malumore — dobbiamo fermarci qui per la notte? Il sole è tramontato e la vista di Darling non è più quella di un tempo. Non abbiamo bisogno di un riparo in una notte come questa.

— Il sole è solo dietro la montagna — mi rispose. — Proseguendo lungo la strada avremo ancora qualche minuto di luce con il crepuscolo. Ancora un chilometro o due, Matthew, è tutto quello che ti chiedo.

Alzai le spalle. Un giorno o l’altro, pensai, su una strada come questa, la povera vecchia Darling si rifiuterà di proseguire e dirà: “Non un passo di più”. Mi sentivo perennemente colpevole d’anteporre i capricci di mio fratello al benessere del cavallo, solo perché mio fratello si lamentava a voce più alta.

— Sono la Lucciola — si disse John, ma parlò abbastanza forte perché anche Alvaro lo udisse. Era il suo credo. — Sono la Lucciola — continuò — perché la luce solare dà la vita a ogni cosa sulla Terra, ma io ho più vita di quella posseduta da ogni altro essere, per questo emano una mia luce. Non ho bisogno del ciclo quotidiano del sole. Rifiuto la sua inutile luce e vado per la mia strada. Questo mondo è morto, ma altri uomini sono contenti di vivere e respirare come le cellule di un cadavere. Io no. Voglio tornare al tempo in cui la vita era come la mia vita, quando aveva un senso. Sto seguendo un uomo che conosce il segreto di questa vita. Il Genere Umano si è giocato il suo futuro, ma c’è vita nel suo passato e quell’uomo mi ci può condurre o può indicarmi la strada. Non morirò. Sono la Lucciola.

— La tua è una vanteria — commentò Alvaro. — Spero che non lo rimpiangerai. Un nome, specialmente un nome che ci si è scelti, deve essere portato per sempre. Anche quando ci sarà un tempo in cui non vorrai più essere la Lucciola, non dimenticherai mai quel nome. Sta’ attento, John.

— Posso tener fede al mio nome, Padre — disse John — se voi potete tener fede al vostro.

— Siamo tutti padri dell’Uomo Futuro — replicò Alvaro — poiché la vita nasce solo dalla vita. Come i tuoi antenati erano scimmie, e prima ancora insetti, rettili, anfibi e pesci, sino a risalire alla forma di vita primordiale, così da noi nascerà l’Uomo Futuro. E da lui, chi può saperlo? Noi non possiamo saperlo perché, anche se vedessimo l’Uomo Futuro, non riusciremmo a capirlo.

— Non mi interessa il vostro Uomo Futuro — rispose John. — Se non c’è futuro per il Genere Umano, non c’è nemmeno per me. Io andrò nel passato.

— Il passato — ripeté l’uomo. — Il glorioso passato che ti ossessiona tanto. Vacci allora, se riesci a trovare il modo, ma ricordati questo: se impegni tutto il tuo essere nella lotta, nell’ambizione e nel potere, allora neghi a te stesso l’appagamento che è qui, ora, in questo mondo. Forse non è proprio il tipo di felicità che cerchi, ma per molti, moltissimi uomini si avvicina notevolmente al loro modello di felicità. La razza umana non ci si è mai avvicinata tanto. Non farti abbagliare da città e stelle, John, sono solo simboli. Sono sempre stati falsi, anche se la gente che li ha creati non ammetterà mai la propria stoltezza. Ora siamo un popolo migliore, più avanzato, più maturo. Più vicino alla morte naturalmente, ma è questa la via che il tempo percorre. Oggi l’uomo ha imparato a convivere con se stesso, e questo è un aspetto che non troverai nel passato.

“Dici di essere un ribelle, di avvertire un disagio che nessun altro sembra sentire, e qual è la tua soluzione? Fuggire dove tutti sentono quello stesso disagio. E questo può dare loro sollievo? Può renderli più sopportabili? Mi fai pena, amico mio, perché, a differenza di quello che pensi, non sei mosso da una grande ambizione, ma afflitto da una malattia.”

Alvaro era un uomo crudele, anche se non l’avrebbe mai ammesso. Il flusso continuo, monotono e sferzante delle parole di Alvaro avevano cullato John verso un sentimento di rabbia sorda che si manifestò quando finalmente il monologo dell’omino fu terminato.

— Voi! Voi mi fate la predica sul peccato dell’orgoglio, sulla malattia dell’ambizione. Ma cos’è la vostra Confraternita, Padre Alvaro, se non un’istituzione che si è prefissa di determinare il destino dell’Umanità? Dite di non ammettere alcuna illusione di vanità… alcun dio, però volete ergervi a Dio voi stesso. Preparate la strada all’Uomo Futuro, insegnate il trionfo dell’Uomo Futuro. Chi vi dà il diritto di determinare il futuro?

— Non abbiamo alcun diritto — ammise Alvaro. — In un certo senso hai ragione Ci facciamo carico di un sacco di cose, ci diamo da fare quando forse dovremmo solo aspettare, ma non lo facciamo per orgoglio. Non diciamo di essere gli Eletti che guideranno l’Umanità verso il suo destino. Non vediamo degli dei in noi stessi, non ci ergiamo al ruolo di Dio. Svolgiamo solo quello che pensiamo sia il ruolo dell’uomo. La tua accusa ha del vero, ne siamo coscienti e ne proviamo vergogna. Agiamo in nome delle nostre convinzioni, ed è impossibile credere che non vi sia vanità in tali azioni. Dopo tutto la vanità è un peccato così facile e subdolo. Facciamo quello che pensiamo sia meglio, John, ma non neghiamo che potrebbe risultare sbagliato. Perlomeno abbiamo l’umiltà di ammetterlo.

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