Clifford Simak - Fuga dal futuro

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Nel giardino di un fotoreporter, ai piedi di una vecchia quercia, si apre a un tratto, come nelle fiabe, un gran buco nero. Ma le creature che ne escono non sono gnomi o folletti, sono uomini e donne, vecchi e bambini che fuggono dal futuro; o, almeno, così dicono. È un’invasione ordinata e pacifica, che pone però ugualmente problemi gravissimi. Possiamo noi, già sovraffollati come siamo, accogliere e mantenere questi milioni di nuovi venuti che dilagano in ogni parte del mondo? E, d’altra parte, chi avrebbe il coraggio di respingere quelli che sono, in fin dei conti, i nostri discendenti? Finché, a sciogliere i nodi e le esitazioni, interviene l’orrendo nemico da cui i profughi fuggivano e che ora si scatena anche nel nostro tempo.

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19

La conferenza stampa era andata bene. Erano stati presi gli accordi per la dichiarazione del Presidente davanti alle telecamere.

L’orologio sulla parete segnava le sei pomeridiane passate da poco. Le telescriventi continuavano a ticchettare per conto loro.

Wilson disse a Judy: — Puoi chiudere bottega, per oggi ne hai avuto abbastanza.

— E tu?

— Resterò qui ancora un po’. Prendi la mia macchina. Io prenderò un tassi fino a casa tua.

Trasse di tasca le chiavi dell’auto e gliele buttò.

— Quando vieni, sali a bere qualcosa — disse Judy. — Ti aspetto alzata.

— Può darsi che venga tardi.

— Se sarà molto tardi, perché prenderti la briga di andare fino a casa tua? L’ultima volta che sei stato da me, hai lasciato lo spazzolino da denti.

— Non ho il pigiama.

— E quando mai te lo sei messo?

— Okay — si arrese Wilson, sorridendo. — Spazzolino sì, pigiama no.

— Forse ci rifaremo di questo pomeriggio.

— Sarebbe a dire?

— Non ti ricordi? Ti ho detto che cosa avevo intenzione di fare.

— Ah!

— Già, proprio… ah! Non l’ho mai fatto a quel modo.

— Sei una spudorata. E adesso sloggia.

— La cucina manderà caffè e panini ai giornalisti. Pregali che diano qualcosa anche a te.

Quando Judy se ne fu andata, Wilson riordinò le carte sparse sulla scrivania, poi rimase un po’ seduto a riposarsi, ascoltando i rumori esterni che giungevano attutiti fino a lui.

Sentì un telefono suonare in lontananza, poi un rumore di passi. Fuori, nell’atrio, qualcuno batteva a macchina, e le telescriventi continuavano a ticchettare sommessamente in fondo alla stanza.

Era tutta una follia, pensò. Tutto quello che stava succedendo era assurdo, e nessuno con un briciolo di buonsenso ci avrebbe mai creduto. Tunnel temporali e mostri venuti dallo spazio facevano parte dei programmi televisivi seguiti avidamente dai ragazzini. E se si fosse trattato di una follia collettiva, di autosuggestione, di isterismo di massa? E se domani, al risveglio, avessero scoperto che si era trattato di un sogno, che tutto era tornato come prima?

Respinse la sedia e si alzò. Sulla scrivania di Judy lampeggiavano alcune spie luminose, ma lui non ci badò. Uscì in corridoio e di qui in giardino. All’aperto cominciava a fare più fresco, e le lunghe ombre degli alberi tagliavano il prato.

Le aiuole fiorite erano al massimo dello splendore: rose, eliotropi, nicotiana, gerani, aquilegie e margherite. Wilson si fermò a guardare aldilà del parco dove il Monumento a Washington spiccava in tutto il suo candore classico.

Si voltò, sentendo un passo alle sue spalle. Era una donna che indossava una tunica bianca e calzava sandali.

— Signorina Gale — disse lui, un po’ interdetto. — Che bella sorpresa!

— Spero di non contravvenire a qualche divieto — dichiarò lei. — Nessuno mi ha fermato. Posso stare qui?

— Certo. Come ospite…

— Dovevo vedere il giardino. Ho letto tanto in proposito.

— Non siete mai stata qui?

— Sì — disse lei, dopo aver esitato un momento. — Ci sono stata. Ma era diverso.

— Be’, è ovvio che col tempo le cose cambino.

— Già.

— C’è qualcosa che non va?

— No, perché?… Vedo che non capite. Ma non credo che ci sia motivo perché non debba dirvelo.

— Dirmi cosa? Qualcosa che ha a che fare con questo giardino?

— Sì. Ai miei tempi, cioè fra cinquecento anni, il giardino non ci sarà più. E neanche la Casa Bianca.

Lui si limitò a fissarla.

— Vedo che non mi volete credere. Da noi, non esistono nazioni. Esiste una nazione sola… ma non so spiegarmi bene. Comunque, le nazioni non esistono e la Casa Bianca non c’è più. Solo pochi muri diroccati e qualche pezzo di cancello arrugginito. Il parco non c’è più e nemmeno le aiuole. Capite adesso? Capite cosa significhi tutto questo per me?

— Ma come? Quando?

— Non subito… fra un centinaio d’anni. Ma adesso può darsi che non succeda nemmeno, dal momento che vi trovate su un altro piano temporale.

Lui scrollò la testa perplesso. Gli pareva incredibile che quella sottile ragazza vestita di bianco potesse parlare con tanta sicurezza della distruzione della Casa Bianca e dei diversi piani temporali. — Cosa ne sapete, voi, dei diversi piani temporali? — le domandò, perplesso.

— Per poterlo capire bisognerebbe conoscere le equazioni relative — disse lei. — Ma credo che ci siano pochissimi uomini al mondo in grado di capirle. Fondamentalmente, però, tutta la faccenda è molto semplice. Si tratta di una situazione prodotta dalla risultanza causa-effetto. Una volta cambiata la causa, o le cause, com’è successo con la nostra venuta…

Lui la tacitò con un gesto.

— Non riesco a crederci — disse. — E non solo ai piani temporali, ma a tutto quanto. Stamattina mi sono svegliato con l’idea di andare a un picnic. Sapete cos’è un picnic?

— No, non lo so. Così adesso siamo pari.

— Un giorno vi porterò a un picnic.

— Ci conto. È bello?

20

Bentley Price tornò a casa esausto ma trionfante perché era riuscito a superare un blocco stradale militare, aveva fatto uscire di strada una jeep e a furia di clacson era riuscito a superare due isolati intasati di profughi e curiosi che continuavano a indugiare nella zona, nonostante tutti gli sforzi della Polizia Militare per farli sgomberare. L’imbocco del vialetto era mezzo ostruito da una macchina messa per traverso, ma lui riuscì a superarla con un’ampia curva che lo portò a schiacciare un cespuglio di rose.

Era scesa la notte dopo una giornata molto piena, e Bentley non vedeva l’ora di arrivare a casa a buttarsi sul letto; ma prima doveva togliere dall’auto tutto il suo equipaggiamento fotografico, perché non era prudente lasciarcelo come d’abitudine, con tutta la gente che c’era intorno. Si mise al collo tre macchine fotografiche e stava chinandosi a raccogliere una bracciata di accessori quando si accorse dello sfregio fatto alle aiuole di Eunice.

Proprio nel bel mezzo del roseto era stato piazzato un cannone, colle ruote sprofondate nel terreno, e intorno c’erano i serventi. La postazione era illuminata a giorno da un riflettore appeso a un albero, e bastava un’occhiata per vedere come erano stati ridotti i fiori.

Bentley partì furibondo alla volta del cannone, spingendo con una gomitata uno dei serventi; pareva un gallo da combattimento, quando si piazzò davanti a un giovane ufficiale.

— Avete avuto una bella faccia tosta a venir qui mentre il proprietario era assente… — cominciò.

— Siete voi il proprietario? — domandò il capitano che comandava la postazione.

— No. Ma sono il responsabile. Il proprietario mi ha incaricato di sorvegliare in sua assenza…

— Spiacenti, signore, ma abbiamo dovuto eseguire gli ordini — spiegò l’ufficiale.

— Avevate avuto ordine di piazzare il cannone proprio in mezzo all’aiuola di Eunice? — strillò Bentley.

— Non esattamente. Ma non abbiamo potuto evitarlo, dal momento che ci è stato ordinato di piazzare il cannone in modo da coprire l’imbocco del tunnel.

— Che idiozie! — esclamò Bentley. — Che bisogno c’era di coprire l’imbocco del tunnel con un cannone, quando continuano a uscire quei poveri disgraziati?

— Non lo so, nessuno si è preso la briga di spiegarmelo — disse l’ufficiale. — Ho ricevuto degli ordini e mi sono limitato a eseguirli, fiori o non fiori, proprietario o non proprietario.

— Bel modo di comportarsi. Non certo da ufficiale né da gentiluomo. Nessun ufficiale piazzerebbe un cannone in mezzo a un roseto e nessun ufficiale lo punterebbe contro un branco di profughi…

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