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Clifford Simak: Il cubo azzurro

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Clifford Simak Il cubo azzurro

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Tutto ha inizio quando il professor Edward Lansing decide di scoprire chi ha realmente scritto un magnifico saggio su Shakespeare consegnatogli da un suo studente e viene a sapere che l’alunno l’ha comprato, pensate un po’!, da una slot machine. Una rapida investigazione ed ecco che il professor Lansing si trova di fronte alla macchinetta: questa gli dà due chiavi e lo manda alla ricerca di un’altra slot machine. La terza slot machine infine si prende il suo denaro e lo trasporta in un nuovo mondo. Qui Lansing incontra uno strano assortimento di compagni di viaggio, tra cui un prepotente brigadiere, un prete pomposo, una donna ingegnere, una poetessa e un simpatico robot, tutti ignari e perplessi come lui. Allontanati dalle loro linee temporali e scaraventati in questo nuovo mondo, sono tutti giocatori in un gioco senza regole e apparentemente anche senza scopo. Comincia così un viaggio straordinario che porterà i nostri forzati avventurieri prima a un immenso cubo azzurro e poi a un’antica e misteriosa città: scopriranno allora di dover risolvere un enigma fondamentale, la cui soluzione garantirà loro un ruolo di rilievo nello sviluppo della società galattica.

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Restò seduto, tenendo in mano il bicchiere che ancora non aveva portato alle labbra, e pensò ancora una volta a ciò che era successo, e scoprì, con un senso di stupore, che si sentiva un po’ insudiciato e si vergognava, come se avesse commesso qualcosa d’ignobile. Tentò di comprendere perché provava quella sensazione; ma sembrava che non ve ne fosse motivo, a parte il fatto che entrando nello stanzone a fianco della Rathskeller aveva compiuto un’azione non del tutto normale. In tutta la sua vita non aveva mai commesso azioni furtive, e non l’aveva fatto neppure questa volta, almeno fisicamente; ma quando aveva aperto la porta del magazzeno dimenticato, aveva avuto l’impressione di sgattaiolare furtivo, di commettere un atto che non si attagliava alla dignità della sua posizione di docente di un college piccolo ma stimato, forse addirittura illustre.

Ma non era tutto, si disse. La furtività, la sensazione di essere un po’ sporco, non era tutto. Ora, ripensandoci, si rendeva conto che aveva nascosto qualcosa a se stesso. C’era qualcosa che non voleva affrontare, che rifiutava di affrontare. Quel fattore, ammise con uno sforzo, era il sospetto d’essere stato preso in giro… anche se non si trattava esattamente di questo. Se si fosse trattato semplicemente d’uno scherzo, di un’infantile burla studentesca, non sarebbe andata oltre il momento in cui era entrato quasi di nascosto nello stanzone per scoprire la macchina. Ma la macchina gli aveva parlato… eppure anche questo, se fosse stato uno scherzo ben organizzato, sarebbe stato realizzabile per mezzo di un nastro registrato, che lui aveva attivato quando aveva tirato la leva.

Tuttavia, non era andata così. Non soltanto la macchina gli aveva parlato, ma anche lui le aveva parlato, aveva sostenuto una conversazione. Nessuno studente era in grado di preparare un nastro che potesse sostenere un dialogo logico; lui aveva impartito istruzioni piuttosto complesse.

Dunque non era stato uno scherzo della sua immaginazione, e non era stata una burla goliardica. La macchina gli aveva addirittura restituito il calcio; la caviglia gli faceva ancora un po’ male, anche se non zoppicava più. E se non era stata una burla, per quanto congegnata ingegnosamente, allora, in nome di Dio, che cos’era?

Si portò il bicchiere alle labbra e tracannò il whiskey: una cosa che non aveva mai fatto. Lo centellinava sempre, non lo tracannava. Anche perché non reggeva molto bene l’alcol.

Si alzò dalla poltrona e incominciò a camminare avanti e indietro. Ma non servì a nulla; non lo aiutò a pensare. Posò il bicchiere vuoto sulla credenza, tornò alla poltrona e sedette di nuovo.

E va bene, si disse, smettiamola di giocare, abbandoniamo l’idea di cercare di proteggerci, di non poterci concedere il lusso di renderci ridicoli. Affrontiamo la faccenda dall’inizio e vediamo di andare fino in fondo. Era cominciato tutto con lo studente, Jackson. Non sarebbe successo niente, se non fosse stato per Jackson, un ottimo saggio, scritto molto bene, soprattutto per uno studente come lui… se non ci fossero state quelle citazioni di fonti fasulle. Era stata la citazione delle fonti a indurlo a scrivere un biglietto e a infilarlo nella cassetta delle lettere di Jackson. O forse l’avrebbe chiamato in ogni caso, e gli avrebbe fatto capire con allusioni indirette che doveva aver avuto la collaborazione di un esperto, per scrivere un tema di quel livello? Lansing ci pensò per un momento e concluse che molto probabilmente non l’avrebbe fatto. Se Jackson voleva barare, la cosa non riguardava lui: lo studente non avrebbe fatto niente più che barare con se stesso. Anche se l’avesse chiamato a rendere conto dell’imbroglio, sarebbe stata una scena imbarazzante, un confronto controproducente, perché non era assolutamente possibile provare che l’imbroglio ci fosse stato.

La conclusione, si disse Lansing, era che lui era stato manovrato, e in un modo molto, molto abile, da Jackson personalmente oppure da qualcun altro che s’era servito di Jackson. Secondo il suo giudizio Jackson non era abbastanza astuto, e forse neppure abbastanza energico per organizzare da solo una cosa simile. Tuttavia non era possibile averne la certezza. Con un tipo come Jackson, non si poteva mai sapere.

E se si era trattato d’una manovra, indipendentemente da chi l’aveva congegnata, che scopo aveva?

Sembrava che non esistesse una risposta a questo interrogativo. Una risposta che avesse senso. Non c’era proprio niente che avesse senso, in quella storia.

Forse il miglior modo di risolverla era lasciar perdere tutto quanto, e non andare più avanti. Ma poteva comportarsi così? Poteva imporsi quella linea d’azione? Per tutto il resto della sua vita si sarebbe chiesto di cosa s’era trattato; per tutta la vita avrebbe pensato a ciò che sarebbe potuto accadere se lui fosse andato all’indirizzo scritto sulla targhetta delle chiavi e avesse fatto ciò che gli aveva detto la slot machine.

Si alzò, prese la bottiglia, e prese anche il bicchiere per riempirlo di nuovo. Ma non lo riempì. Posò di nuovo la bottiglia e portò di nuovo il bicchiere nel lavello della cucina. Aprì il frigorifero, tirò fuori una confezione già pronta di carne e maccheroni, e la mise nel forno. Il solo pensiero di un altro pasto di carne e maccheroni gli dava la nausea, ma che cosa poteva fare? In tempi simili, non poteva certamente sperare in una cena per buongustai.

Andò alla porta d’ingresso e ritirò il giornale della sera. Sedette in poltrona, accese la lampada e aprì il giornale. Non c’erano molte novità. Il Congresso continuava a cavillare su un progetto di legge per il controllo degli armamenti e il presidente aveva predetto, ancora una volta, le conseguenze più terribili se il Congresso non avesse approvato l’astronomico bilancio della difesa. L’Associazione dei Genitori si scagliava contro la violenza delle trasmissioni televisive. Erano state scoperte tre nuove sostanze che potevano causare il cancro. Mr. Dithers aveva licenziato ancora una volta Dagoberto, nei fumetti… e per la verità quel fessacchiotto se lo meritava. Nella pagina riservata alle lettere al direttore ce n’era una che traboccava di sacrosanta indignazione perché uno dei cruciverba pubblicati in precedenza era pieno d’errori.

Quando la carne e i maccheroni furono pronti, li mangiò, senza sentirne il sapore; li mandò giù perché non poteva fare a meno di nutrirsi. Tirò fuori il budino di due giorni prima, come dessert, e restò seduto al tavolo della cucina, a bere il caffè. Mentre beveva la seconda tazza si rese finalmente conto di quel che stava facendo. Ce la metteva tutta per procrastinare qualcosa, perché non era sicuro di doverlo fare, perché reagiva ancora al dubbio assillante che lo rodeva. Ma, dubbio o non dubbio, l’avrebbe fatto; sapeva con certezza che l’avrebbe fatto, alla fine. Non l’avrebbe mai perdonato a se stesso, altrimenti, e per tutto il resto della sua vita avrebbe continuato a domandarsi che cosa s’era perduto.

Si alzò dal tavolo della cucina e tornò in camera da letto per prendere le chiavi della macchina.

V

Era una costruzione in una strada secondaria, in un quartiere commerciale piuttosto vecchiotto che aveva perduto da diversi anni il suo lustro economico. C’era un uomo che camminava dall’altra parte della strada, a un paio d’isolati di distanza, e all’entrata di un vicoletto un cane fiutava tre bidoni della spazzatura, e probabilmente cercava di decidere quale dei tre gli sarebbe convenuto rovesciare per frugarci dentro.

Quando Lansing inserì la chiave più grande nella serratura della porta d’ingresso, girò senza difficoltà. Entrò. C’era un lungo corridoio debolmente illuminato che si estendeva per l’intera lunghezza della costruzione. Trovò la porta 136. La chiave più piccola girò agevolmente come la grande, e Lansing entrò nella stanza. Di fronte a lui c’era una dozzina di slot machines , allineate contro il muro. La quinta da sinistra, gli aveva detto la macchina con cui aveva parlato poche ore prima. Contò, partendo da sinistra, e si mosse, andò a fermarsi davanti alla numero cinque. Si frugò in tasca, pescò uno dei dollari d’argento e l’inserì nella fenditura. La macchina prese vita, gioiosamente, e ticchettò quando azionò la leva. I rulli girarono con quel movimento folle che è tipico esclusivamente delle slot machines. Uno dei rulli si arrestò, un altro sobbalzò e tornò indietro, e il terzo si fermò con un tonfo improvviso. Lansing vide che i caratteri allineati davanti a lui erano tutti eguali. La macchina emise un suono che sembrava un colpo di tosse e dallo scivolo del pagamento delle vincite scese un torrente di monete d’oro, grandi come un dollaro. Riempirono il ricettacolo e zampillarono sul pavimento, e il getto d’oro continuò a sgorgare. Alcune monete caddero di taglio e rotolarono tutto intorno, come minuscole ruote luccicanti.

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