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Clifford Simak: Il cubo azzurro

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Clifford Simak Il cubo azzurro

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Tutto ha inizio quando il professor Edward Lansing decide di scoprire chi ha realmente scritto un magnifico saggio su Shakespeare consegnatogli da un suo studente e viene a sapere che l’alunno l’ha comprato, pensate un po’!, da una slot machine. Una rapida investigazione ed ecco che il professor Lansing si trova di fronte alla macchinetta: questa gli dà due chiavi e lo manda alla ricerca di un’altra slot machine. La terza slot machine infine si prende il suo denaro e lo trasporta in un nuovo mondo. Qui Lansing incontra uno strano assortimento di compagni di viaggio, tra cui un prepotente brigadiere, un prete pomposo, una donna ingegnere, una poetessa e un simpatico robot, tutti ignari e perplessi come lui. Allontanati dalle loro linee temporali e scaraventati in questo nuovo mondo, sono tutti giocatori in un gioco senza regole e apparentemente anche senza scopo. Comincia così un viaggio straordinario che porterà i nostri forzati avventurieri prima a un immenso cubo azzurro e poi a un’antica e misteriosa città: scopriranno allora di dover risolvere un enigma fondamentale, la cui soluzione garantirà loro un ruolo di rilievo nello sviluppo della società galattica.

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C’era un altro pensiero che lo inquietava. Se non fosse riuscito a trovare un posto per passarvi la notte, avrebbe dovuto trascorrerla all’addiaccio, e non era preparato. Non aveva addosso gli indumenti pesanti che avrebbero potuto proteggerlo dal freddo notturno, e non aveva possibilità di accendere il fuoco. Dato che non fumava, non aveva mai fiammiferi in tasca. Diede un’occhiata all’orologio, e solo quando lo guardò si rese conto che l’ora indicata, lì, non avrebbe avuto alcun significato. Non era stato traslato soltanto nello spazio ma, sembrava, anche nel tempo. Anche se era un pensiero spaventoso, per il momento non lo sconvolgeva troppo. Aveva altre preoccupazioni, e la più importante era il timore di non riuscire a trovare un riparo per la notte.

Aveva camminato un paio d’ore, o almeno così sembrava. Era pentito di non aver guardato prima l’orologio perché, sebbene non indicasse l’ora esatta di quel luogo, almeno avrebbe potuto dirgli da quanto tempo si trovava sul sentiero.

Era possibile che fosse in una zona disabitata? Era l’unica eventualità che spiegasse la mancanza d’una presenza umana. In circostanze normali, ormai avrebbe dovuto imbattersi in una fattoria.

Il cielo stava declinando e fra un’ora, due al massimo sarebbe scesa l’oscurità. Lansing ricominciò a correre, poi si fermò. No, così non andava: la corsa poteva ispirargli il panico, e adesso non poteva permetterselo. Tuttavia allungò il passo. Trascorse un’ora, e non vide abitazioni, non vide tracce di presenze umane. Il sole calava all’orizzonte e il buio si avvicinava rapidamente.

Un’altra mezz’ora, si disse, facendo un patto con se stesso. Se non avesse trovato nulla entro una trentina di minuti, avrebbe dovuto fare il possibile per prepararsi ad affrontare la notte… avrebbe dovuto cercarsi un riparo naturale, o arrangiarsi a costruirsene uno, alla meglio.

L’oscurità scese più rapida di quanto avesse immaginato e, prima che fosse passata mezz’ora, incominciò a cercare un posto dove rintanarsi. Poi, più avanti, scorse un barlume di luce. Si fermò trattenendo il respiro, e lo guardò, per assicurarsi che fosse una luce, per non fare un gesto che potesse metterla in fuga. Avanzò di qualche passo, nella speranza di vederla meglio; e sì, era una luce, su questo non c’erano dubbi.

Proseguì in quella direzione, distogliendo lo sguardo solo per il tempo strettamente indispensabile per assicurarsi d’essere ancora sul sentiero. Via via che procedeva il barlume divenne più luminoso e più nitido, e Lansing si sentì pervadere da un’ondata di sollievo e di gratitudine.

La foresta si aprì in una radura e Lansing vide la sagoma d’una casa, nell’imbrunire sempre più fondo. La luce proveniva da diverse finestre, a un’estremità della casa, e dal comignolo massiccio usciva un filo esile di fumo.

Nell’oscurità, andò a sbattere contro una staccionata: aveva abbandonato il sentiero, nella fretta di raggiungere la casa. Procedette cautamente, a tentoni, lungo lo steccato fino a quando arrivò al cancello. Il cancello era incardinato a un palo massiccio, più alto del necessario. Lansing alzò gli occhi, e capì perché era così alto. C’era fissata una trave trasversale, e dalla trave pendeva un’insegna, da due corte catene.

Lansing socchiuse le palpebre per vedere meglio, e riuscì a distinguere che era l’insegna d’una locanda; ma ormai la notte era così buia che non riuscì a discernere il nome.

VI

Cinque persone, quattro uomini e una donna, erano seduti intorno a un massiccio tavolo di quercia, davanti al camino acceso. Quando Lansing entrò dalla porta e la richiuse, tutti girarono la testa per guardarlo. Un uomo molto grasso si puntellò, si alzò dalla sedia e gli venne incontro.

— Professor Lansing, siamo lieti che sia arrivato — gli disse. — Eravamo in pensiero per lei. Ne manca ancora una. Speriamo che non le sia successo niente.

— Un’altra? Sapevate che sarei venuto?

— Oh, sì, da qualche ora. L’ho saputo quando è partito.

— Non riesco a capire — disse Lansing. — Nessuno poteva saperlo.

— Io sono l’oste — disse il grassone. — Gestisco meglio che posso questa modesta locanda, per comodità di quelli che viaggiano da queste parti. Prego, signore, venga accanto al fuoco a riscaldarsi. Il generale di brigata, sono sicuro, le cederà la sedia vicina al camino.

— Con piacere — disse il generale di brigata. — Mi sono addirittura un po’ strinato, a stare seduto così vicino alle fiamme.

Si alzò. Era un uomo massiccio, maestoso. Quando si mosse, la luce del fuoco scintillò sulle medaglie appuntate sul petto.

Lansing mormorò: — La ringrazio, signore.

Ma prima che potesse sedersi, la porta si aprì e una donna entrò nella locanda.

L’oste avanzò di un passo o due per accoglierla.

— Mary Owen — le disse. — Lei è Mary Owen? Siamo molto lieti che sia arrivata.

— Sì, sono Mary Owen — disse la donna. — E sono ancora più lieta d’essere arrivata di quanto lei lo sia di avermi qui. Ma sa dirmi dove mi trovo?

— Certamente — disse l’Oste. — Questo è il Cockadoodle Inn.

— Che nome strano, per una locanda — disse Mary Owen.

— Non saprei — disse l’Oste. — Non sono stato io a chiamarla così. Aveva già questo nome quando sono venuto qui. Come può osservare, è antica. A suo tempo ha ospitato molti illustri personaggi.

— Che posto è? — Chiese Mary Owen. — Voglio dire, questo paese. Che cos’è… che nazione? Che provincia, che paese?

— Questo non posso dirglielo — rispose l’Oste. — Non ho mai sentito che abbia un nome.

— E io non ho mai sentito una cosa simile — disse Mary. — Un uomo che non sa dove vive.

— Signora — disse l’uomo tutto vestito di nero che stava accanto al generale di brigata, — per la verità è tutto molto strano. L’Oste non sta cercando di farsi beffe di lei. Anche a noi ha detto la stessa cosa.

— Venga avanti, venga — insistette l’Oste. — Si avvicini al fuoco. I signori che sono qui già da un po’ e si sono scaldati lasceranno posto a lei e al professor Lansing. E ora che ci siete tutti, andrò in cucina a vedere a che punto è la cena.

Uscì, frettolosamente, e Mary Owen si avvicinò e si fermò accanto a Lansing.

— L’ha chiamata professore? — chiese.

— Sì, mi pare di sì. Avrei preferito che non lo facesse. Raramente mi chiamano professore. Persino i miei studenti…

— Ma lo è, vero?

— Sì. Insegno al Langmore College.

— Non l’ho mai sentito nominare.

— È un piccolo college del New England.

Il generale di brigata li chiamò. — Ecco qui due sedie accanto al fuoco. Io e il reverendo le abbiamo occupate anche troppo a lungo.

— Grazie, generale — disse Mary.

L’uomo che era rimasto seduto in silenzio di fronte al generale di brigata e al reverendo si alzò e toccò gentilmente il braccio di Lansing.

— Come può vedere — disse, — io non sono umano. Si offenderebbe se le dessi il mio benvenuto nel nostro piccolo gruppo?

— Ma no… — Disse Lansing, poi s’interruppe e fissò lo sconosciuto. — È un…

— Sono un robot, Mr. Lansing. Non ne aveva mai visti?

— No. Mai.

— Oh, certo, non siamo molti — disse il robot. — E non siamo su tutti i mondi. Mi chiamo Jurgens.

— Scusami se non ti avevo notato prima — disse Lansing. — Nonostante il fuoco acceso, qui è piuttosto buio, e poi sono successe tante cose.

— Mr. Lansing, per caso lei non è un eccentrico?

— Non credo, Jurgens. Non ci ho mai pensato. Perché me lo domandi?

— Ho un hobby — disse il robot. — Faccio collezione di eccentrici. Ne ho uno che crede d’essere Dio, tutte le volte che si ubriaca.

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