Arthur Clarke - Ombre sulla Luna

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Questo affascinante racconto scritto da uno dei migliori e piú noti autori di fantascienza si svolge tutto sulla Luna, in un’epoca — tra due secoli — nella quale i viaggi spaziali avranno superato il primo stadio, e già l’uomo avrà fondato le sue colonie sui pianeti del Sistema Solare. Come ora fra le nazioni della Terra, cosí domani fra la Terra e la Federazione dei pianeti si verranno inevitabilmente a creare situazioni passibili di sfociare in un conflitto armato. Ombre sulla Luna ci narra appunto come e perché la guerra ebbe luogo, quali ne furono le cause, e quali conseguenze ebbe... o meglio, avrà. E la descrizione è talmente vivida, accurata, poggiata su solide basi scientifiche, da dare l’ìmpressione di leggere una cronaca vera, di eventi veri, di uomini veri. E la Luna ci appare accessibile e familiare nella sua realtà. Arthur Clarke, l’indimenticabile autore di Sabbie di Marte, è tornato!

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Avevano appena ripreso il cammino e stavano salendo un dolce pendio, quando si udì uno schianto di metallo lacerato e Ferdinando compì un giro su se stesso. Jamieson spense immediatamente il motore, e il trattore si fermò.

— Eccoci sistemati — commentò Jamieson a bassa voce. — Ma non ci dobbiamo lamentare. Se la trasmissione di prua non s’è guastata mentre eravamo nella pozza… — non finì la frase, voltandosi a guardare dalla parte dove erano venuti. Wheeler seguì la direzione del suo sguardo.

La cupola del Progetto Thor era ancora visibile all’orizzonte. Forse avevano avuto anche troppa fortuna, ma sarebbe stato bene se avessero potuto frapporre la curva protettrice della Luna tra loro e l’inferno che stava per scatenarsi laggiù.

17

A tutt’oggi le rivelazioni relative alle armi adoperate nella Battaglia di Pico sono scarsissime. È noto che i missili ebbero una parte di secondo piano: nello spazio non c’è niente che possa trasmettere l’energia di un’onda-urto. Una bomba atomica che esplodesse a poche centinaia di metri non provocherebbe danni, e perfino le sue radiazioni potrebbero far poco male a strutture ben protette.

La parte principale fu recitata da armi non materiali. La più semplici erano i raggi a ioni, prodotti direttamente dalla propulsione delle astronavi. Da quando furono inventate le prime valvole radiofoniche, circa tre secoli prima, gli uomini avevano imparato a produrre e a concentrare fasci di particelle elettroniche. Il culmine era stato raggiunto nella propulsione delle navi spaziali, con i cosiddetti “razzi a ioni”, che generavano la spinta mediante l’emissione di intensi raggi di particelle caricate elettricamente. Questi raggi avevano provocato numerose disgrazie nello spazio, anche se si evitava a bella posta di concentrarli allo scopo di limitarne la portata effettiva.

Naturalmente, c’era anche il modo di potersi difendere da tali armi. I campi elettrici e magnetici che li producevano potevano anche servire a disperderli, trasformandoli da raggi mortali in un’innocua spruzzata di energia volatile.

Più efficaci, ma anche più difficili da costruire, erano le armi che si servivano di radiazioni pure. Ma sia la Terra sia la Federazione erano riuscite a crearne anche di queste. Restava da vedere chi fosse stata più brava, se la scienza superiore della Federazione o la maggior capacità produttiva della Terra.

Il commodoro Brennan era perfettamente a conoscenza di questi fattori. Al pari di tutti i comandanti, si accingeva a entrare in azione con forze più esigue di quanto non avrebbe desiderato. A dire la verità, anzi, avrebbe addirittura preferito non dover entrare in azione.

L’apparecchio di linea “Eridano”, opportunamente trasformato, e quello da carico, “Lete”, quasi del tutto ricostruito, navigavano tra la Terra e la Luna seguendo le rispettive rotte tracciate con la massima cura. Il commodoro ignorava se poteva contare ancora o meno sull’elemento sorpresa. Ma anche se erano stati scoperti, la Terra era con tutta probabilità all’oscuro dell’esistenza del terzo e più grande apparecchio: l’“Acheronte”. Brennan si chiedeva quale spirito romantico, appassionato di mitologia, fosse responsabile di quei nomi. Probabilmente era stato il commissionario Churchill, che si faceva un punto d’onore d’imitare il suo famoso antenato in tutti i modi possibili e immaginabili. Tuttavia, bisognava convenire che i nomi erano ben trovati. I fiumi della Morte e dell’Oblio: sì, le astronavi che ne portavano i nomi avrebbero presto regalato l’una e l’altro a molti!

Il tenente Curtis, uno dei pochi membri dell’equipaggio che avesse passato quasi tutta la vita lavorativa nello spazio, alzò la testa dal banco delle comunicazioni.

— Ho appena ricevuto un messaggio dalla Luna. È indirizzato a noi.

Brennan provò un brutto colpo. Se erano stati scoperti, i loro antagonisti non avrebbero perso l’occasione di farglielo sapere! Diede una rapida occhiata al messaggio, poi tirò un sospiro di sollievo.

«Osservatorio a Federazione. Pregovi ricordare esistenza strumenti insostituibili Platone. Anche personale Osservatorio al completo. Maclaurin direttore.»

— Non farmi pigliare un altro spavento come questo, Curtis — disse il commodoro. — Credevo che il messaggio fosse diretto a me. Sarebbe terribile che ci avessero già scoperto.

— Scusatemi. È una trasmissione generale, sulla lunghezza d’onda dell’Osservatorio.

Brennan porse il messaggio al comandante delle operazioni, capitano Merton.

— Che cosa ne dite? Avete lavorato laggiù, vero?

Merton sorrise, leggendo.

— C’è tutto Maclaurin, qui. Prima gli strumenti, poi il personale. Non c’è da preoccuparsi. Farò il possibile per evitare di colpirlo. Dopo tutto, cento chilometri di distanza non sono un margine trascurabile, se ci pensate. A meno che non venga colpito da un proiettile vagante, non ha niente da preoccuparsi. Dal resto, l’Osservatorio è a una bella profondità nel sottosuolo, sapete.

La lancetta del cronometro decimava, implacabile, gli ultimi minuti. Sempre confidando che la sua astronave, chiusa nel bozzolo della notte, non fosse stata ancora individuata, il commodoro Brennan osservò le tre scie luminose della sua flotta scivolare lungo le rotte prestabilite. Non era quello il destino che aveva sempre sognato. No, non aveva mai supposto di poter essere arbitro del destino dei mondi.

Non pensava all’energia che emanava dai reattori, non si preoccupava del posto che gli sarebbe stato riservato nella storia, si chiedeva solo, come tutti alla vigilia della loro prima battaglia, dove sarebbe stato l’indomani alla stessa ora.

A meno di un milione di chilometri di distanza, Carl Steffanson sedeva davanti a un pannello di comandi e osservava l’immagine del Sole attraverso una delle innumeri telecamere che costituivano gli occhi del Progetto Thor. Il gruppetto di tecnici stanchi che gli stavano intorno avevano quasi del tutto messo a punto le apparecchiature prima del suo arrivo. Ora il gruppo discriminatore, che lui aveva portato dalla Terra con una fretta così disperata, era stato inserito nel circuito.

Steffanson girò una manopola, e il Sole scomparve. Accese uno dopo l’altro tutti gli apparecchi d’osservazione, ma non si vedeva più niente. Tutti gli occhi della fortezza erano ciechi. La protezione era completa.

Troppo stanco per potersi sentire soddisfatto, si appoggiò allo schienale e accennò ai comandi.

— Tocca a voi, adesso. Sistemate in modo che passi abbastanza luce per vederci ma che lassù gli ultravioletti la respingano. Abbiamo la certezza che nessuno dei loro raggi ha un’energia effettiva superiore a mille angstrom. Saranno molto sorpresi quando vedranno fallire i loro colpi. Vorrei solo poterglieli rimandare così come arrivano.

— Che aspetto ha la nostra installazione dall’esterno, quando lo schermo è in funzione? — domandò un ingegnere.

— Come uno specchio. E finché sarà capace di riflettere saremo al sicuro delle radiazioni pure. Questo ve lo posso promettere. — Steffanson guardò l’orologio. — Se il Central Intelligence non sbaglia, abbiamo ancora venti minuti. Però io non ci conterei.

— Per lo meno Maclaurin sa dove ci troviamo — disse Jamieson spegnendo la radio. — Ma non me la prenderò con lui se non manda nessuno a prenderci.

— E allora che cosa dobbiamo fare?

— Mangiare — rispose Jamieson avviandosi verso la minuscola dispensa. — Credo che ce lo siamo guadagnato, un buon pasto. Ci aspetta una lunga camminata.

Wheeler guardò nervosamente la pianura, sul cui fondo era nettamente visibile la cupola del Progetto Thor. Poi aprì la bocca e gli ci volle un po’ per capire che quello che vedeva non era un’illusione ottica.

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