Harry Harrison - Le stelle nelle mani

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Le stelle nelle mani: краткое содержание, описание и аннотация

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Esiste oggi, per uno scienziato, la possibilità di controllare l’uso delle sue scoperte? L’uomo che scompare dal suo laboratorio di Tel Aviv all’inizio di questo romanzo, non si fa molte illusioni al riguardo. Tenta ugualmente, con uno dei paesi più pacifici e democratici che l’Europa conosca: la piccola Danimarca. E subito tutti i servizi segreti delle grandi potenze sono in allarme. La quieta Copenhagen si trova da un giorno all’altro nell’occhio del ciclone. Ciò che le spie, gli agenti, gli informatori riescono a ricostruire non è molto e non ha molto senso: un’esplosione, una nave danneggiata in porto, un certo numero di alte personalità danesi ferite. Non si vede bene quale nesso ci sia tra questo fiasco e le stelle. Eppure, sott’acqua, si sta preparando qualcosa di fantastico.

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Quando furono ben lontani dalla riva, i rimorchiatori fischiarono il loro addio e fecero dietrofront.

— Mollate — disse Henning. — Ponti liberi e boccaporti chiusi.

— Possiamo procedere, allora — disse Nils.

Al posto del secondo pilota erano sistemati dei comandi separati che servivano solo per la navigazione sulla superficie del mare. Due grandi motori elettrici erano montati su cuscinetti assicurati allo scafo della nave. E solo cavi elettrici penetravano lo scafo resistente alla pressione, assicurando così la continuità della tenuta stagna. Ciascun motore muoveva una grande elica a sei pale. Non c’era timone: i cambiamenti di direzione venivano ottenuti variando la velocità relativa delle eliche, che potevano perfino girare in sensi opposti per le rapide virate. Le leve comando spinta e le manovre di sterzo erano controllate solo dal posto del secondo pilota, e la precisione e scioltezza delle manovre erano garantite dal calcolatore, che sovrintendeva all’intera operazione.

Henning spinse in avanti entrambe le leve e Galatea si animò. Non più legata alla riva, non più a rimorchio, era una nave autonoma. Le onde si frangevano contro la prua e spruzzavano il ponte mentre la velocità aumentava. Le luci di Helsingør cominciarono a sparire. Uno schizzo di schiuma colpì l’oblò.

— A che velocità filiamo? — domandò Nils.

— Sei nodi. Stupendo. Lo scafo ha tutte le belle caratteristiche marinare di una salsiera!

— Questa sarà la sua prima ed ultima crociera sull’oceano, dunque calmatevi. — Poi eseguì un rapido calcolo. — Rallentate a cinque, così arriveremo in porto all’alba.

— Bene, signore.

Il primo viaggio stava andando più liscio di quanto si fossero aspettati. Era stata riscontrata solo una piccola infiltrazione d’acqua da uno dei boccaporti, causata da una guarnizione di dimensioni sbagliate, che avrebbero potuto sostituire con una di ricambio appena arrivati. Nella semioscurità del ponte, Nils toccò ferro: c’era da sperare che durasse sempre così.

— Volete un caffè, capitano? — domandò Henning. — Ne ho fatto fare un poco e l’ho messo nei thermos prima che chiudessero la cucina.

— Buona idea Fatelo portare. Alcuni minuti dopo, un marinaio alto, con basette sportive e due baffi imponenti, arrivò col caffè, salutando cordialmente.

— Chi diavolo siete voi? — domandò Nils. Non l’aveva mai visto prima.

— È uno dei mozzi in più che mi avete ordinato di ingaggiare — spiegò Henning. — Abbiamo dovuto cercarli e chiedere informazioni, così sono saliti a bordo solo questo pomeriggio. Jens chiedeva da mesi di essere accettato sulla Galatea. Dice che ha già esperienza di propulsione Daleth.

— Cosa?

— Signorsì. Aiutai a saldare la prima unità sperimentale. Per poco non spezzò la schiena alla nave… Il capitano Hougaard sta ancora cercando qualcuno da denunciare.

— Lieto di avervi a bordo, Jens — disse Nils, provando un certo imbarazzo nell’usare termini nautici, anche se nessuno ci faceva caso.

Il lento viaggio continuava. Ci avrebbero messo di più a percorrere trenta chilometri via mare da Helsingør a Copenaghen, che non le migliaia di chilometri che li separavano dalla Luna. Ma non c’erano alternative. Fino a che la propulsione Daleth non fosse stata installata, la Galatea era soltanto una barcaccia elettrica che andava come una lumaca.

A oriente l’orizzonte mostrava già le strisce d’oro dell’aurora, quando arrivarono all’ingresso del porto franco di Copenaghen, dov’erano in attesa due rimorchiatori che agganciarono la nave, e tornarono indietro, trascinandola delicatamente dentro il Frihavn, verso lo scalo di attesa di Vestbassin.

— Puntualissimo — disse Nils, indicando il convoglio che si fermava in quel momento sulla banchina. — Devono averci seguito continuamente. Skou mi ha detto che c’era poco meno di una divisione di soldati, dislocata qui. Lungo la strada che porta all’Istituto non c’è un metro che non sia sorvegliato. Vorrei che fosse già tutto finito. — Stringeva i pugni, di quando in quando, e quello era l’unico segno esterno di tensione.

— Non può andar storto niente. Troppe precauzioni, comunque…

— Comunque tutte le nostre uova sono nello stesso paniere. Ecco la nostra propulsione! — Indicò la forma coperta di plastica che veniva scaricata da un autocarro aperto, presso una gru. — E certo i professori sono lì anche loro. Tutte in un solo cesto… Ma non preoccupatevi: sembra proprio che ci sia l’intero esercito danese. Solo una bomba atomica potrebbe aver ragione di un simile spiegamento di forze!

— E chi mi dice che non ricorrano a quella? — Henning era bianco come un panno lavato. — Ce ne sono molte nel mondo, no? Chi può impedire a un paese, che non riesce a mettere le mani sulla propulsione, di fare in modo che non se ne serva più nessuno? Equilibrio delle forze…

— Chiudete il becco! Avete troppa fantasia. — Involontariamente, la voce di Nils aveva preso un’asprezza inaspettata. Tutt’e due alzarono gli occhi e trasalirono leggermente quando una formazione di reattori, lucenti nel sole che si stava levando, passarono rombando sopra la loro testa.

— Nostri! — disse Nils, sorridendo.

— Vorrei che si sbrigassero — rispose Henning, per nulla rasserenato.

Era necessario un lavoro di precisione per issare la gigantesca attrezzatura della propulsione Daleth a bordo e montarla; così, nonostante tutti i preparativi precedenti, l’operazione procedeva con lentezza esasperante. Mentre Galatea veniva solidamente ormeggiata alla banchina e si trafficava per aprire il grande boccaporto sul ponte di poppa, l’immensa gru se ne stava china su di esso col lungo collo metallico, pronta a sollevare il portello al momento opportuno. Quel boccaporto sarebbe servito una sola volta, poi l’avrebbero sigillato con una saldatura. Finalmente la grande lastra d’acciaio fu sollevata in aria, girò lentamente e venne deposta a riva. Nell’attimo in cui l’apertura rimase libera, l’altra gru si protese stringendo l’oscillante forma tubolare dell’attrezzatura Daleth. Con movimenti precisi, questa scomparve subito dentro il boccaporto.

Squillò il telefono, e Nils staccò il ricevitore. Ascoltò, annuendo. — Va bene. Nella mia cabina, lo ricevo là. — Poi riappese, ignorando lo sguardo interrogativo di Henning. — Prendete voi il mio posto. Torno subito — disse.

Un ufficiale nell’uniforme della Guardia del Corpo Reale era là ad attenderlo. L’uomo salutò e gli porse una grossa busta color crema, sigillata con ceralacca rossa. Nils riconobbe lo stemma, impresso nella ceralacca.

— Devo attendere la risposta — disse l’ufficiale.

Nils annuì e aprì la busta. Lesse il breve messaggio, poi andò alla scrivania. In un cassetto c’era la carta da lettere intestata col nome della nave, messa lì da qualche solerte ufficiale e che fino a quel momento era passata inosservata. Ne prese un foglio, scrisse poche parole. Chiuse il tutto in una busta e la consegnò all’ufficiale.

— Suppongo che non sia necessario l’indirizzo, vero? — domandò.

— No, signore. — L’uomo sorrise. — Permettete che da parte mia, da parte di tutti, vi faccia i miei migliori auguri. Non avete idea di che cosa provi il Paese, oggi.

— Credo di cominciare a capirlo. — E si salutarono con una stretta di mano.

Di ritorno sul ponte, Nils pensò alla lettera che se ne stava al sicuro nella sua cassaforte.

— Naturalmente, non mi direte nulla, vero? — domandò Henning.

— E perché dovrei? — Ammiccò, poi chiamò a sé il radiotelegrafista, l’unica persona che stava sul ponte in quel momento. — Neergaard, prendetevi un po’ di riposo — disse. — Tornate fra quindici minuti.

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