— Non avvicinatevi… o lo uccido!
Si era espresso in un inglese dal forte accento straniero, ma comprensibile. Nessuno degli spettatori si mosse, e l’uomo cominciò a trascinare la figura inerte di Arnie lungo la chiglia, verso il bordo dell’acqua.
In quel momento Nils Hansen sbucò dalle tenebre alle spalle dello sconosciuto e protese una mano poderosa che immobilizzò il polso dell’altro, torcendolo, cosicché la canna della rivoltella si rivolse in alto, verso il cielo, lontano dalla tempia di Arnie. L’uomo vestito di nero urlò per il dolore e per la sorpresa, e dalla pistola partì un proiettile che andò a perdersi nel buio.
Con la mano libera, Nils strappò Arnie alla stretta del rapitore e si chinò lentamente per stenderlo sulla lastra d’acciaio sottostante.
Lo sconosciuto si divincolò inutilmente, poi cominciò a tempestare di pugni Nils che ignorò quella gragnuola fino a che non si fu raddrizzato di nuovo. Soltanto allora allungò l’altra mano, strappò l’arma al prigioniero e la lanciò lontano. Poi colpì lo sconosciuto con un poderoso ceffone. L’uomo girò su se stesso e rimase lì, penzoloni, sostenuto solo dal solido braccio del pilota.
— Voglio parlargli! — gridò Skou precipitandosi verso di loro.
Nils ora teneva il prigioniero con tutte e due le mani, scuotendolo come una grossa bambola, e protendendolo verso Skou. L’uomo indossava uno scafandro da subacqueo, e un paio di baffi sottili come una linea di matita correvano lungo il labbro superiore. Sopra una guancia spiccava, rossa, l’impronta di cinque grosse dita.
Per un istante il rapitore si divincolò nella stretta spietata di Nils, guardando il poliziotto che si avvicinava. Poi desisté, accorgendosi forse che non c’era scampo. Ogni resistenza cessò. Improvvisamente portò una mano alla bocca e spezzò con i denti l’unghia del pollice in un gesto apparentemente infantile.
— Fermatelo! — urlò Skou, cercando di fare ancora più in fretta.
Troppo tardi. Un’espressione di pena passò sulla faccia dello sconosciuto. Gli occhi si dilatarono, la bocca si spalancò in un grido senza suono. L’uomo si contorse tra le braccia di Nils, il suo dorso si inarcò sempre più, terribilmente, fino a che il suo corpo si abbandonò inerte.
— Lasciatelo andare — disse Skou, sollevandogli una palpebra. — È morto. Veleno sotto l’unghia.
— Anche l’altro è morto — disse un agente. — L’avete colpito…
— So dove l’ho colpito.
Nils si chinò sopra Arnie, che cominciava ad agitarsi, muovendo la testa, ma ancora con gli occhi chiusi. Aveva una grossa contusione dietro l’orecchio.
— Mi sembra in buono stato — disse il pilota, alzando gli occhi. Poi vide sui pantaloni e sulla scarpa di Skou del sangue che gocciolava fin sulla lastra di metallo. — Ma voi siete ferito!
— È la solita gamba — rispose Skou. — La gamba bersaglio, che colpiscono sempre. Non è niente. Portate subito il professore all’ospedale. Che baraonda! Non riesco a capire come ci abbiano scoperto. Sarà tutto più difficile, d’ora in poi.
Seduto al buio sul ponte di comando, nella sua poltroncina, Nils Hansen cercava di immaginare se stesso che azionava i comandi della Galatea. Abitualmente non era dotato di molta fantasia, ma all’occorrenza sapeva raffigurarsi il veicolo che avrebbe dovuto pilotare e ne prevedeva il probabile comportamento… Aveva collaudato quasi tutti i nuovi reattori acquistati dalla SAS e gli apparecchi sperimentali delle Forze Aeree. Prima di salire su un aereo, ne studiava attentamente la pianta e le caratteristiche costruttive, entrava in un simulatore di volo e parlava a lungo coi tecnici. Cercava di conoscere nei minimi particolari il veicolo che gli veniva affidato, di apprendere tutto il possibile prima di trovarsi a tu per tu con lui, nel cielo. Non si stancava mai, non aveva fretta. Gli altri trovavano esasperante la sua pignoleria, ma Nils li lasciava dire… Una volta staccato da terra, avrebbe potuto contare solo su se stesso. Più ne sapeva, più probabilità aveva di fare un volo fortunato e di tornarsene vivo.
Ora le sue facoltà erano tese al massimo. Quel veicolo era così incredibilmente grande, i principii su cui si basava così nuovi… Tuttavia aveva già pilotato il Blaeksprutten , e quell’esperienza gli era preziosa. Ricordandosi delle difficoltà incontrate, aveva collaborato con i tecnici nella progettazione dei comandi e della strumentazione di bordo. Allungò una mano e sfiorò lievemente la leva, la stessa leva standard di un Boeing 707. Si sentì quasi a suo agio. Quella era collegata attraverso il computer alla propulsione Daleth e sarebbe stata usata per le manovre di precisione come il decollo e l’atterraggio. E poi l’altimetro, l’indicatore della velocità rispetto all’aria, quello della velocità effettiva, e molti altri dispositivi… I suoi occhi andavano dall’uno all’altro strumento senza mai sbagliare, nonostante l’oscurità.
Un grosso oblò di vetro, inserito nella parete d’acciaio davanti a lui, permetteva di vedere buona parte del cantiere e del porto. Anche se erano passate le due del mattino ed Helsingør dormiva da un pezzo, la zona intorno al cantiere era piena di movimento. Le auto della polizia incrociavano lentamente lungo la banchina e scrutavano coi loro fari nelle piccole strade laterali. Un plotone di soldati si muoveva in formazione sparsa tra gli edifici. Alcuni riflettori supplementari erano stati montati sopra le normali lampade stradali, e l’intera zona era illuminata a giorno. La motosilurante Hejren se ne stava ancorata trasversalmente nella parte più vicina del porto, con le torrette pronte a sparare.
La porta si aprì, lasciando passare il ronzìo dei motori, ed entrò il radiotelegrafista, che si diresse al suo posto. Dietro di lui veniva Skou, che saltellava appoggiandosi a una stampella. Rimase un attimo ritto accanto a Nils, lanciando un’occhiata all’imponente spiegamento di forze visibile all’esterno, poi, con una specie di grugnito di approvazione, si lasciò cadere nella poltroncina del secondo pilota.
— Lo sanno che siamo qui — disse — ma non sapranno altro. Dunque, a che punto è questa vecchia carcassa?
— Controlli su controlli… Ho fatto del mio meglio, e tecnici e ispettori hanno esaminato minuziosamente ogni parte dell’attrezzatura. Ecco qui i rapporti firmati. — Gli allungò una grossa cartelletta piena di fogli e aggiunse: — Niente di nuovo su quei figuri della settimana scorsa?
— Niente nel modo più assoluto. Equipaggiamento da sub acquistato qui a Copenaghen. Nessun segno, nessun documento. Le pistole erano tedesche, della seconda guerra mondiale. Speravamo di trovare una traccia esaminando le impronte digitali, ma ci siamo sbagliati. Ho controllato personalmente. Due esseri invisibili spuntati dal nulla.
— Allora, non saprete mai da che paese venivano?
— In fondo, non mi importa. Dopo quel putiferio, tutto il mondo sa che qui sta accadendo qualcosa. Ma che cosa, con precisione, nessuno lo sa, e io ho tenuto lontano tutti quanto basta per impedir loro di saperne di più. — Si protese per leggere il quadrante luminoso dell’orologio. — Non manca molto alla partenza. Tutto pronto?
— Tutti ai loro posti, pronti a partire quando riceveranno l’ordine. Tranne Henning Wilhelmsen. Se n’è andato a dormire, in attesa di essere chiamato.
— Meglio svegliarlo adesso.
Nils prese il ricevitore del telefono e formò il numero di Henning, che rispose subito.
— Comandante Wilhelmsen, qui.
— Ponte di comando. Per favore, presentatevi ora.
— Immediatamente.
— Là — disse Skou, indicando la strada in fondo al porto, dove erano apparsi mezza dozzina di soldati in motocicletta. — Funziona tutto come un orologio, e anche meglio! Guardate! Si trovava al castello Fredensborg, a venti minuti di distanza da qui.
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