Dietro le moto venivano due camion, carichi di militari, che facevano da battistrada a una Rolls Royce nera, lunghissima e lucentissima. Seguivano altri soldati. Come se quell’apparizione fosse un segnale, ed effettivamente lo era, altri camion carichi di truppe uscirono dalla caserma del castello Kronborg, dove stavano pronti in attesa. Quando il convoglio ebbe raggiunto l’ingresso del cantiere, un solido cordone di truppe lo circondò.
— E le luci di bordo? — domandò Nils.
— Potete farle accendere. Ora tutta la città sa con certezza che sta accadendo qualcosa.
Nils girò l’interruttore del quadro di comando, che si illuminò di una luce fredda. Skou si stropicciò le mani e sorrise. — Tutto come un orologio! E notate che io non do ordini a nessuno. Tutto è stato previsto. I «turisti-spie» presenti in città ora staranno cercando di scoprire che cosa succede, ma non possono avvicinarsi. Tra un po’ cercheranno d’inviare messaggi e di partire, e ci riusciranno ancor meno. A quest’ora i buoni danesi sono a letto, e non si lasciano disturbare. Ma tutte le strade sono bloccate, i treni non partono, i telefoni non funzionano. Perfino le corsie delle biciclette sono chiuse. Ogni strada e ogni sentiero, anche quelli che attraversano i boschi, sono sorvegliati.
— E non avete liberato dei falchi, per acchiappare eventuali piccioni viaggiatori? — domandò Nils, con aria innocente.
— No! Perbacco, dovevo forse farlo? — Skou sembrava preoccupato e si morse il labbro. Poi scorse il sorriso di Nils. — State solo scherzando! Non dovreste… Sono un povero vecchio e chissà… il mio orologio interno potrebbe anche fermarsi per una scossa improvvisa!
— Voi ci metterete sottoterra tutti quanti — dichiarò Henning Wilhelmsen, arrivando sul ponte. Indossava la sua uniforme migliore. — Eccomi, signore — disse salutando Nils.
— Già, naturalmente… — fece il comandante, cercando a tentoni il proprio berretto sotto il pannello. — Sedetevi al vostro posto e iniziamo il controllo prelancio.
Finalmente trovò il copricapo e se lo calcò in testa. Si sentiva a disagio, con quello. Allora se lo tolse e guardò l’emblema ricamato sulla parte anteriore: il nuovo simbolo Daleth in campo stellato. Poi, con un rapido movimento, ficcò di nuovo il berretto sotto il quadro dei comandi.
— Scopritevi — ordinò con fermezza. — Nessuno deve portare il berretto, sul ponte.
Skou si fermò sulla porta. — E così nacque la prima grande tradizione delle Forze Spaziali… — osservò, ghignando.
— E non voglio civili sul ponte di comando!!! — gridò Nils, mentre la figura zoppicante si ritirava.
Terminato il controllo, Henning attivò il sistema di comunicazione interna, e la sua voce rimbombò in ogni compartimento della nave, ordinando all’equipaggio di prendere i rispettivi posti. Poi Nils guardò di nuovo fuori dell’oblò, e la sua attenzione fu attratta da un improvviso movimento. Un montacarichi tappezzato alla bell’e meglio di bandiere stava alzandosi da una piattaforma di legno prefabbricata. Si fermò alla curva della prua e venne assicurato in quella posizione: allora alcuni uomini, che trascinavano dei cavi, si arrampicarono su per la scala fino alla parte posteriore del montacarichi. Tutto si svolgeva con la massima regolarità. Il telefono squillò ed Henning rispose.
— I microfoni sono a posto — disse a Nils.
— Bene. Collegateli al sistema di comunicazione interna. Ma prima date il segnale di all’erta a tutti.
L’equipaggio attendeva, ogni uomo al proprio posto. I componenti furono chiamati, uno per uno, mentre Nils guardava la folla dei funzionari che si facevano avanti. Era comparsa anche una banda militare, che suonava vigorosamente, e un sottile filo di musica giungeva attraverso lo scafo sigillato. Poi, presso la piattaforma, la folla si divise e una donna alta e bruna salì per prima la scala.
— La principessa ereditaria Margrethe — disse Nils. — Meglio che ci colleghiamo anche noi.
In un attimo la piccola piattaforma si riempì, e il sistema di comunicazione interna diffuse in tutta la nave un discorso ufficiale. Il discorso fu di una brevità sorprendente: probabilmente era stato Skou a ordinarlo per ragioni di sicurezza. La banda riattaccò e Sua Altezza Reale venne avanti. Un membro dell’equipaggio calò dal ponte della nave una gomena con una bottiglia di champagne appesa all’estremità. La voce della principessa era limpida, le parole semplici.
— Io ti battezzo Galatea.
Il brusco schianto della bottiglia che si spezzava contro lo scafo si udì nitidamente. A differenza dai soliti battesimi, Galatea non fu varata all’istante. I funzionari si ritirarono prima in un punto prestabilito e la piattaforma rimase libera. Soltanto allora venne dato l’ordine di varare. I cunei furono tolti, e un brivido improvviso percorse le strutture possenti.
— A tutti i compartimenti! — disse Nils al microfono. — Controllare che le attrezzature libere siano assicurate, come da istruzioni date. E ora tutti facciano attenzione, perché presto avvertiremo una forte scossa.
Avanzavano sempre più in fretta verso l’acqua scura. Un tremito, che ricordava più il fremito del decollo che non un impatto, fece vibrare la nave quando questa venne a contatto con l’acqua. La sua corsa fu rallentata e infine fermata dalla resistenza delle catene; poi ci fu un notevole rollìo. I rimorchiatori e le scialuppe della manutenzione le si fecero attorno.
— Fatto! — esclamò Nils, staccando le mani dal bordo del pannello dei comandi, a cui si era tenuto ben stretto. — Sempre così emozionante, un varo?
— Macché! — rispose Henning. — Le navi, in genere, sono solo finite a metà quando vengono varate. Mai sentito di una che sia già pronta a salpare, e per di più, con l’equipaggio a bordo. Davvero sconcertante.
— Tempi eccezionali, circostanze eccezionali — sentenziò Nils, calmo, ora che la tensione si era scaricata. — Prendete voi il comando. Fino a quando saremo in mare, l’avrete voi. Però non mandatela a fondo come fareste con uno dei vostri sottomarini!
— Si naviga in superficie quasi sempre! — rispose Henning, orgoglioso delle sue abilità marinare. — Inseriscimi nel circuito di comando — ordinò al radiotelegrafista.
Mentre Henning si assicurava che i supporti fossero stati tolti dai rimorchiatori e che questi ultimi si trovassero nella posizione giusta, Nils controllò tutti i compartimenti. Non si erano avuti danni, l’unità non imbarcava acqua ed era pronta a partire.
Avrebbero potuto usare i loro mezzi, ma era stato deciso che si facessero rimorchiare fuori del porto. Nessuno sapeva come si sarebbe comportata quella nave tanto singolare, ed era meglio mettere in funzione le macchine solo quando sarebbero stati nelle acque libere del Sound. Dopo un breve scambio di acuti fischi, i rimorchiatori partirono. Mentre si muovevano lentamente, seguendo la motosilurante che li precedeva, Nils poté vedere distintamente per la prima volta la scena che si presentava alle loro spalle.
— Un varo segreto… — commentò Henning, indicando la folla che gremiva la banchina. Tutti applaudivano, agitando le mani in segno di saluto, e le chiazze colorate delle bandiere danesi spiccavano ovunque.
— In città sapevano tutti che qui stava accadendo qualcosa. E, una volta in acqua, mica si poteva impedire che venissero a vederci.
I rimorchiatori disegnarono un lungo arco e puntarono verso l’entrata del porto. Il molo e la barriera frangiflutti erano neri di gente, e altra ancora stava accorrendo. Molti erano in pigiama, sotto il cappotto, e mostravano un pittoresco assortimento di berretti di pelliccia, impermeabili e altri capi di emergenza. Nils resisté a fatica all’impulso di rispondere al loro saluto. Finalmente furono fuori, nelle acque dell’Øresund: le prime onde si fransero contro i ponti inferiori, lavando gli stivali degli uomini che tenevano tese le gomene.
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