Quando entrò, Beele ebbe l’impressione di sentire la stampatrice a mano che invocava aiuto. Spalancò la porta della tipografia e si precipitò dentro, ma troppo tardi! La macchina stava già assumendo la solita forma di scatola. Quando le si avvicinò, quella lanciò un ultimo clangore, si avventò verso la vetrata e piombò in strada. Cominciò a suonare l’allarme, ma venne subito soffocato.
LA STAMPATRICE RAPITA!
L’ufficio era stato ripulito completamente. Che ironia, pensò Beele. Senza rendersene conto, gli invasori meccanici avevano distrutto l’unico mezzo che poteva dar loro la fama meritata. O avevano fatto apposta? Barthemo Beele si precipitò di nuovo fuori.
Era già buio quando arrivò a una cabina telefonica che funzionava ancora, sull’autostrada. L’aprì, infilò una monetina nell’apposita fenditura, e chercò di chiamare i servizi stampa. Ma ogni volta che riusciva a ottenere la comunicazione e diceva «Chiamo da Altoo…» la comunicazione s’interrompeva, e la sua monetina cascava fuori. Beele cominciava a chiedersi se per caso era stato lui a rovinare l’apparecchio quando lì accanto si fermò una macchina della polizia, servizio stradale. Gli uomini che c’erano a bordo, però, non erano poliziotti.
Aprirono a forza la porta della cabina e lo trascinarono fuori.
«Ci dispiace di essere così bruschi con lei, signore,» disse uno, toccandosi la tesa del cappello. «Ma è in gioco la sicurezza della nazione. Lei è Beele, di Altoona? Il direttore del giornale?»
«Sì, ma…»
«Abbiamo ordini precisi di insabbiare questa faccenda, Beele. Purtroppo dovremo portarla via oppure…»
«E sta bene, uccidetemi!» disse lui. Barthemo Beele, l’intraprendente giovane direttore, piangeva. «Ormai, non ho più nulla per cui vivere. Ho perduto la mia macchina tipografica, i miei caratteri, mia moglie, la mia macchina da scrivere, tutto! Avanti, sicari prezzolati al soldo d’una burocrazia fannullona! Uccidetemi! Avete già ucciso l’unica cosa che mi stava a cuore… la mia grande notizia!»
«Volevo dire, dovremo portarla via oppure arruolarla come nostro agente. Lo facciamo spesso con i giornalisti, e poi assegnamo loro incarichi all’estero. Naturalmente, dovremo indagare meticolosamente sui suoi precedenti… ci vorrà un’ora o giù di lì. Cosa ne dice? Le piacerebbe andare in Marocco?»
Agente della CIA! Beele lo vedeva con l’occhio della mente: le palme, gli intrighi, la possibilità di spazzar via la corruzione alla fonte!
«Accetto,» disse, sorridendo tra le lacrime.
Capitolo Settimo
Le gazze di Marrakech
«E in quattro avevano un sembiante, come di una ruota in mezzo ad una ruota.»
EZECHIELE 10:10
Haroun Al Raschid faceva il difficile e fingeva di non capire cosa voleva comprare da lui Suggs.
«Questo mi mette in una situazione imbarazzante,» disse, esalando il fumo del kif dietro la mano ingioiellata. «Vede, M’sieur Suggs, ufficialmente non so nulla della missione francese in questa città. Come posso darle l’informazione che cerca? Se lei se ne servisse, la mia reputazione presso i francesi potrebbe risultarne… come dire?… offuscata. Potrei perdere amici e influenza… e per che cosa?»
«Lei ci deve aiutare,» fece torvo Suggs. «Ci deve dare almeno il nome del loro uomo. So che lo conosce. Haroun sa tutto quello che succede a Marrakech.»
Al Raschid si rilassò leggermente, arrotondando la bocca carnosa in una smorfia di modestia. «Lei mi lusinga, M’sieur.» La stoffa aderente dell’abito gli impediva di stravaccarsi sul basso divano, come sembrava avesse intenzione di fare; era con il massimo sforzo che si muoveva in qualunque direzione, persino per prendere il suo tè alla menta. «Le assicuro che vorrei aiutarla, M’sieur Suggs, come un amico aiuta l’amico. Ma… non so. Il rischio è grande.»
«Lei deve sapere qualcosa di utile.» L’uomo della CIA cercava di trattenere il respiro ogni volta che uno sbuffo di fumo di kif gli arrivava vicino, ma stavolta si sporse sopra il basso tavolo d’ottone e parlò con un sussurro concitato. «Basta che mi dica il nome di quell’uomo, ecco tutto. È per il bene del Marocco e per quello degli Sta… delle Nazioni Unite! Tutto il mondo ne trarrà beneficio.»
«Ah, ma è la stessa cosa che dice quel gentiluomo russo. Chi di voi due dice la verità?» Con uno scintillio d’astuzia negli occhi, Haroun aggiunse: «Che cosa deve credere un uomo semplice come me? Io non sono istruito. Io sono solo un povero mercante, come vede.»
L’ampio gesto della mano ingemmata indicò il pavimento a parquet, gli splendidi tappeti, le pareti a mosaico, le finestre a sesto acuto dai vetri istoriati, e i delicati candelieri simili a gioielli. La stanza era un caos di stoffe e d’altro ancora: ottone, legno, cuoio, seta, lana, argento, velluto. Oltre un’arcata marmorea, Suggs poteva scorgere il fresco giardino dove un pavone bianco passeggiava avanti e indietro tra le piante di limoni.
«Come vede, non ho l’aria condizionata. Non ho la televisione. Non ho nessuno dei lussi così comuni nel suo paese, no, neppure lo spazzolino da denti elettrico.»
Suggs si rimboccò la gellaba ed estrasse un portafoglio smilzo. «Naturalmente siamo disposti a pagare,» disse. «Qualunque cifra ragionevole.»
«Ah!» Le narici esili di Haroun esalarono due sbuffi gemelli di fumo aromatico. «Allora devo vincere i miei scrupoli di coscienza. Ecco la metà destra di una foto dell’uomo che lei cerca. Si chiama Brioche. Marcel Brioche. È pilota delle Forze Aeree francesi… e chissà che altro, eh?»
«Nessuno è esattamente quello che sembra,» disse giovialmente Suggs. Mentre la sua mano sinistra si protendeva per prendere la mezza fotografia, la sua destra, ancora nascosta dalla gellaba, sparò con la pistola a silenziatore. Haroun Al Raschid non si mosse, si limitò a grugnire leggermente mentre sul petto della sua camicia di seta si allargava una chiazza purpurea di sangue.
Suggs non restò a vedere l’inevitabile espressione di sorpresa sulla faccia della sua vittima (dopo nove anni nella CIA, ci si stufava di quelle espressioni), ma ripose la foto nel portafoglio e uscì sulla strada assolata. Alzò il cappuccio, mentre correva. Quei movimenti scatenarono nelle sue budella fitte brucianti di dissenteria.
Una folla di ragazzini laceri l’assediò quasi immediatamente e lo seguì fino all’albergo, cantilenando:
«M’su, M’su! Vuoi gazza, bella gazza? Vuoi bel ragazzo? Kif , fumare! Mister! Ehi! Vuoi foto? Vuoi vedere gazza che balla? Piace frusta di cammello? Me molto forte, M’su! Vuoi che lucida scarpe? Me guida, M’su! Me guida. Vuoi bella gazza?»
Il travestimento non era poi efficace come lui aveva sperato. Nell’atrio dell’albergo, Suggs comprò una cartolina con gli incantatori di serpenti al mercato di Dar El Fna, e un francobollo. «Cara Madge,» scrisse. «Mi diverto sempre molto, anche se tu e Susie mi mancate tanto. Con affetto, Bubby.» La consegnò al concierge per farla spedire.
Scotty, il suo collega, era seduto sull’unica poltrona comoda della loro stanza e leggeva un giornale arabo. «L’hai avuta?» chiese, senza alzare la testa. Suggs annuì, mentre chiudeva la porta a chiave. «Bene. Haroun ti ha dato dei fastidi?»
«Un po’. Ho dovuto ucciderlo.»
«Peccato. Avremmo potuto servirci di lui. Cos’è successo?»
«Te lo dirò non appena avrò finito il rapporto, Scotty.» Si tolse la gellaba, si allentò la cravatta, sedette alla macchina da scrivere portatile e infilò sul rullo un modulo in triplice copia.
«Oggetto: un proiettile, calibro .375,» batté. «Data dell’uso: 1° giugno 19…» Continuò, battendo lentamente, orgoglioso delle spaziature perfette. Quando ebbe finito, tirò fuori la mezza fotografia e la mostrò a Scotty.
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