Raggiunse la finestra, che era a due imposte, con antichi vetri lattiginosi. Gli era capitato spesso di incontrare nei romanzi vecchie finestre come quella che si rifiutavano di aprirsi. Questa invece girò senza difficoltà sui cardini. Si arrampicò sul davanzale e restò accucciato, tenendosi in equilibrio con una mano.
Attorno a lui vi erano tegole di ardesia e assi di legno vecchie di due secoli, che puzzavano di muffa. Di fronte, a circa sette metri di distanza, la strada piena di traffico. Fra i due, una trave di ferro larga una quindicina di centimetri, debolmente illuminata dai fari delle automobili. La trave, coperta di sudiciume, era incastrata nel camino di mattoni che sorgeva proprio a fianco della finestra. In effetti, uno dei piedi di Phil era posato su di essa. Sotto, due piani di buio.
Ciò che successe poi fu forse una conseguenza della droga calmante e inibitrice della paura che Juno gli aveva messo nel whisky, anche se Phil lo attribuì all’influenza di Lucky e all’incitamento grottesco, eppure stranamente efficace, di Sacheverell. Sta di fatto che Phil non era un atleta, e anzi soffriva un poco di agorafobia.
In ogni modo, si alzò lentamente in piedi, abbandonò la finestra, restò immobile un attimo, poi corse agilmente lungo la trave. Arrivato alla strada rotolò goffamente dall’altra parte del parapetto e si gettò lungo disteso sul marciapiede.
Nello stesso istante dall’oscurità alle sue spalle si alzò una lama abbagliante di luce blu che tagliò la trave di sbieco, sfavillò per un attimo contro il soffitto nero sopra il tetto della casa, e si spense.
La trave resistette per un momento. Poi, lentamente, le due labbra del taglio cominciarono a scivolare l’una sull’altra. Il camino cadde pigramente. Si udirono delle grida dal basso. Il tetto degli Akeley si mosse verso la strada di qualche decina di centimetri. E si fermò. Delle nuvolette di fumo si sollevarono nell’aria.
Phil cominciò a correre lungo la strada fino a un taxi parcheggiato a un isolato di distanza. Stava pensando che qualunque cosa fossero gli “ortho” dei ragazzi di Moe Brimstine, a quanto pareva li avevano anche gli amici di Romadka. Non poté fare a meno di pensare alla drammatica situazione del gruppo nella soffitta oscillante. Gli pareva quasi di sentire le titaniche imprecazioni di Juno.
Si infilò nel taxi.
— Al Tan Jet — disse all’autista. — È una specie di night club.
— Sì, lo conosco — disse l’altro con l’aria di chi la sa lunga, e diede a Phil un’occhiata triste e rassegnata, del genere che si riserva a coloro che insistono, contro tutti i buoni consigli, a cercare la propria rovina.
Qualcuno che cantava il Blue della fine del secolo , con voce roca e malinconica, fu la sola cosa che poté udire Phil mentre scendeva attraverso le scale buie nel quasi altrettanto buio Tan Jet. Nessun portiere, robot o umano, era di guardia all’entrata, o se c’era, non si vedeva, e nessuna cameriera gli si precipitò incontro. A quanto pareva, ci si aspettava che i clienti conoscessero la strada da soli.
E di clienti ce n’erano parecchi. Sedevano in piccoli gruppi, in una calma truculenta che suonava come sfida e derisione del trambusto frenetico di quei tempi, e dell’illusione che la frenesia portasse da qualche parte. Non c’erano juke-box teatrali negli angoli, nessuno schermo tv in vista e i separé non sembravano forniti di sensoradio.
Quattro musicisti in carne e ossa strimpellavano sommessamente vecchi strumenti jazz mentre un singolo riflettore illuminava di luce ambrata una cantante color caffè, ingannevolmente languida, coperta fino ai polsi e al collo da un vestito di lustrini.
Stanotte son triste, amore,
e sotto le luci al sodio
mi si spezza il cuore…
Un uomo e una donna uscirono dall’oscurità da due direzioni opposte e si guardarono. — Dolcezza! — gridò lui. Lei restò immobile come una roccia, mentre l’uomo le si avvicinava e le dava uno schiaffo tale da scuoterle tutti i riccioli rossi. — Amore mio! — gridò lei, e gli restituì il ceffone. Phil poté vedere che gli occhi dell’uomo si spalancavano per il piacere, mentre la guancia gli diventava tutta rossa. Si presero ritualmente a braccetto e uscirono.
Non m’importa, amore,
se il mondo è impazzito,
la Luna è sconvolta
e già da cent’anni
lo spazio è ammattito…
In quel momento Phil individuò la nera capigliatura di Mitzie Romadka e il suo mantello in un angolo all’estremità opposta della sala. Si diresse da quella parte, sentendo un improvviso senso di disagio.
Gli zatteroni
non li voglio più,
le belle notizie
non darmele più.
Canto questo lamento
che il secolo pianger fa
e pianger fa il millennio…
Mentre gli spettatori applaudivano pacatamente, Phil si fermò vicino al tavolo di Mitzie. La ragazza era con tre giovani uomini, che però sedevano chiaramente a una certa distanza, come se lei fosse stata esclusa dalla loro compagnia.
I tre, pur senza muovere un dito, mostravano di possedere, più di ogni altro avventore, quella mistica durezza che sembrava la prerogativa dei frequentatori del locale. Avevano la calma dignità degli assassini. Voltandosi per vedere quello che i tre stavano guardando, Mitzie balzò in piedi chiamandolo per nome, con un grido entusiasta, ma anche con un certo allarme negli occhi. Non indossava più la maschera. Gli si avvicinò e gli diede uno schiaffo piuttosto doloroso con la sinistra.
Lui sollevò la mano per restituirle lo schiaffo, ma esitò e riuscì a darle appena un leggero buffetto. Lei gli lanciò un’occhiata, poi si voltò con un largo sorriso, dicendo allegramente: — Amici, ecco Phil. Phil, ti presento Carstairs, Llewellyn e Buck.
Carstairs aveva un rigonfiamento in cima alla testa che gli dava un aspetto a pera. Portava una sottile frangetta, che però non lo rendeva affatto effeminato. — Così sarebbe questo il pagliaccio a cui hai raccontato i piani di stanotte — osservò pigramente.
Llewellyn aveva un’aria molto inglese ed era molto scuro. — E gli hai anche detto che saremmo venuti qui. Mi chiedo come mai non abbia portato la polizia.
Buck aveva la faccia di un falco e un accento del Kentucky che sembrava imparato sui nastri. — La polizia non ha mai tentato di beccare qualcuno al Tan Jet, finora — osservò. — Buono, Otie! — Quest’ultimo richiamo era rivolto a un cagnaccio dall’aria miserabile che sporse la testa da sotto la sedia mostrando i denti a Phil.
Phil si appoggiò al tavolo, la mano vicino a una brocca alta e sottile. — Sono sorpreso di trovarti in un posto tranquillo come questo — disse rivolto a Mitzie. — Mi aspettavo droga, lotte al coltello e donne nude.
Mitzie si girò di scatto verso di lui. — Quanto a droghe, cosa credi che stiamo bevendo in questo momento? — chiese infuriata. — Per i coltelli, basta solo che tu aspetti un po’. E per le donne nude, caro tifoso di combattimenti fra maschi e femmine, se Carstairs, Llewellyn o Buck si infiammassero per qualche ragazza, io andrei subito da lei e le strapperei i vestiti!
Mentre diceva queste ultime parole, stava guardando dietro a Phil. Lui volse il capo e vide la signorina Phoebe Filmer con un giovanotto dall’aria piuttosto impaurita. Phoebe, che indossava un abito da sera color verde pallido profondamente scollato, sembrava ancora più impaurita, e aveva il viso verde quasi quanto i capelli. Forse aveva sentito l’ultima affermazione di Mitzie. Poi riconobbe Phil, e alla paura si aggiunse lo stupore. Phil le rivolse un sorriso rassicurante, anche se forzato. In quel momento l’accompagnatore di Phoebe richiamò la sua attenzione su un separé vuoto vicino alla porta, e i due si affrettarono verso quel rifugio con l’ansia di due turisti in visita ai bassifondi.
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