Le rughe color noce si fusero in una smorfia. — Hai ragione — ammise Takuda. — Non piace neanche a me. Però, Aaron, ci hanno affibbiato quest’incarico riguardante un “complotto inteso a turbare, minare o rovinare” per fare da paravento all’UIGLM, in modo che nessuno potesse accusarli di usare una pazza come capro espiatorio. Lo sanno tutti.
Aaron sorrise. — Adesso sì.
— Ah, non importa più a nessuno. Il tuo è l’unico Settore che ci lavora ancora.
— Meglio così. Inoltre… — Si strinse nelle spalle. — Chissà? Potrebbe essere vero. Non l’abbiamo ancora trovata. E comincio a chiedermi chi troveremo assieme a lei, se mai ci riusciremo.
— È questo il problema — convenne piano Takuda. - Proprio questo. Hai verificato al Settore Tramonto? Potrebbe essere coinvolta con la Coalizione Nazionale Regressista.
— È una possibilità. No, non ho controllato.
— Be’, ti farò sapere se scopriamo qualcosa. Come dici tu, è un problema interessante.
— Grazie. Ve ne sarò grato.
Quindi avrebbe dovuto cavarsela da solo. Tuttavia rimase seduto a guardare lo schermo vuoto, lui che era un uomo addestrato all’azione, alla prontezza di riflessi, alla rapidità di decisione; restò immobile come un’ombra in un antico rifugio sotto terra, mentre i secondi e i minuti del cronometro scivolavano silenziosamente nel passato. La sua mente abbozzò i contorni di un viso, che sembrò balenare per un attimo sullo schermo; ne ricordò la sensazione, come se ricordasse una mano mancante.
Si scosse, mormorando qualcosa. La voce risuonò quasi soprannaturale nella bolla sotto terra. Allora si mosse, rapido, agitato, desiderando schemi d’azione familiari, l’inizio e la fine di piccoli incidenti, voci umane.
Quando entrò nel Constellation Club, le pareti si accesero di un rosa carico. Mezzanotte, secondo il frivolo orologio di Sidney Halleck. Rimase un attimo nell’ombra vicino a una guardia giurata del locale, di quelle che venivano chiamate i buttafuori di Sidney. Diciotto dei venti palchi erano racchiusi da seriche cortine di luce. I clienti vagavano dentro e fuori le zone luminose, risplendendo per un attimo come libellule in una cascata di colore. Diciotto complessi suonavano contemporaneamente sotto il tetto di Sidney, ma la musica stessa era catturata e trasformata dentro le cortine di luce. L’unica musica che superava il frastuono delle decine di bar era quella del complesso personale di Sidney, gli Historical Curiosity, che in un angolo suonava decorosamente musica da camera.
Il locale sembrava tranquillo. Aaron, che era in piedi da quattro ore, aveva bisogno di un intervallo. Si fece prestare da un buttafuori un lucente ricevitore a cintura e premette a caso una spia colorata. Un’orchestrina robot chiamata IQ eseguiva motivi popolari in voga, dietro una cortina azzurra. Aaron premette altri pulsanti, ricevette alfa-music dal palco verde, musica elettronica da quello giallo, e, da quello arancione, qualcosa che sembrava una battaglia fra bidoni di riciclaggio Finalmente localizzò i Nova, sul palco viola.
Quasar cantava a squarciagola una canzone che parlava di fare l’amore su un asteroide che passava troppo vicino al Sole. I versi fecero rabbrividire Aaron. Ma la musica si increspava dall’arpa a canne del Professore come un alito di vento solare, e il Mago creava uno sfrenato e intricato contrappunto servendosi dei neurocavi collegati alla sua testa. La batteria di cubi del Giocatore faceva pulsare l’aria come un campo di battaglia; Aaron si chiese, non per la prima volta, dove un tale scheletro ambulante nascondesse una forza del genere. Restituì il ricevitore a cintura e attraversò il locale. Fu fermato parecchie volte da gente che voleva salutarlo; quando fu a metà strada, la lontana luce viola svanì.
Scorse il Mago seduto a un tavolino d’angolo, intento ad asciugarsi il sudore e a togliersi il trucco, mentre Sidney distribuiva le carte. Sidney, con il viso sereno e paffuto stravolto per la concentrazione, lo vide arrivare e si illuminò.
— Aaron! Come stai?
Il Mago alzò dalla salvietta il viso pieno di sbavature e sorrise. — Prenditi una sedia — disse, e Aaron ridacchiò.
— Grazie, ma non vorrei perdere il lavoro.
— Non è gioco d’azzardo vero e proprio.
— Perché no? — chiese Sidney, con aria offesa. Una bassa e pulsante cascata di note scaturì da un palco non illuminato, dalla parte opposta del locale; il suono era debole, ma il Mago si girò incuriosito in quella direzione.
— Che cos’era?
— Una chitarra pre-GLM; un basso elettrico. Un tale del Settore Tamigi l’ha trovata e mi ha scritto. L’ho comprata senza nemmeno darle un’occhiata. È in condizioni eccellenti.
— Chi è che la suona?
— Il Talpino, degli Starcatchers. Gli piaceva il suo suono. — Vedendo l’espressione perplessa del Mago, aggiunse allegramente: — Io non sono capace di suonarla bene, e hai già visto che casa mia è piena di strumenti musicali. Ho tutto, dal pianoforte a coda di sei metri al didjeridoo…
— Didje… come?
— Cosa vuoi che faccia? Che la metta in un museo? Il Talpino ci si è attaccato come se fosse venuto al mondo suonandola. Come se fosse il fantasma della musica che aspettava di ascoltare. La musica è fatta per essere suonata.
— Fino a un certo punto.
— No. Se non imponi limiti, non troverai limiti. — Si rivolse ad Aaron, che se ne stava appoggiato alla parete dietro di lui chiedendosi quando Sidney avrebbe raccolto le carte. — Non è vero, Aaron?
— Tranne che per le leggi del GLM sui superalcolici e per il tuo credito personale.
— A meno di essere il padrone del bar — disse Sidney compiaciuto. — Lanciò un gettone da due crediti sul tavolo e chiese al Mago rimasto in paziente attesa: — Giochi?
Il Mago spinse avanti il proprio gettone. — Di solito — commentò — si guardano le carte, prima di puntare.
— Rischio — spiegò Sidney. Eseguì lo scarto, a caso secondo Aaron, e bevve birra. Il Mago chiese solo una carta. Il suo viso era più magro, più distaccato che mai; Aaron poteva quasi udire il cervello muovere le rotelle con precisione spietata per vincere il denaro di Sidney. Sidney si passò le dita sul naso e bevve ancora birra, sorvegliando amorevolmente la sua brillante e funzionale creazione. Il Mago alzò lo sguardo, prima sul viso assente di Sidney, poi su quello di Aaron, che ricambiò l’occhiata senza cambiare espressione.
Il Mago chinò la testa, perdendo completamente l’intensa espressione da rettile. Posò le carte sul tavolo, trattenendo a fatica una risata. — Come giocatore di poker fai paura, Sidney.
— Cosa c’è che non va? — chiese Sidney. — Cos’ho combinato? Mi hai letto nel pensiero.
Il Mago sembrò sorpreso. — Ti tradisci senza accorgertene. Ogni volta che hai carte pessime ti passi le dita sul naso e bevi birra. Quando hai carte buone, resti immobile, e ti concentri in modo quasi palpabile. Mi dà tanto fastidio che diventa difficile prendere i tuoi soldi.
Sidney rimase zitto. Scoprì le sue carte con un sospiro. Il Mago le guardò e rise.
— Così — disse Sidney bonariamente — non sei spietato quanto vuoi far credere.
— Pare proprio di sì. — Raccolse le carte. Poi girò la testa verso il palco alle sue spalle, e Aaron disse: — Non sono ancora arrivati.
— Un’altra mano?
— Cercherò di concentrarmi in modo meno evidente. — Sidney si appoggiò allo schienale per dire qualcosa ad Aaron; il suo ricevitore da polso emise un segnale acustico prima che cominciasse. Poggiò la testa sul pugno e rimase in ascolto. Aaron passò in rassegna la folla, scoprì che c’era un problema a un ingresso poco distante.
Un uomo che indossava gli abiti sbrindellati dell’immensa e lugubre zona desolata del Settore Discarica era capitato nel club. Sembrava stupito di trovarsi lì. La luce argentea che aveva negli occhi rivelava che aveva bisogno di droga. Aaron mandò un segnale alla pattuglia stradale; qualche istante dopo delle uniformi grigie comparvero ai margini della chiazza luminosa oltre la porta, mentre i buttafuori di Sidney convincevano il vagabondo a tornarsene in strada. Sidney si allungò sulla sedia.
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