— Vi hanno sparato in volo?
— Il cecchino era in elicar. Per fortuna il traffico era scarso. — Alzò la bottiglia di birra. Se la portò alle labbra, l’abbassò senza bere. Aggiunse, come se il silenzio fosse diventato d’un tratto minaccioso: — Ha usato un fucile laser. — Il Mago emise un brontolio di gola, senza parole. Aaron aprì la mano, quasi a respingere il ricordo. — Il cecchino non… nella sua scheda c’erano solo multe per atterraggio vietato. Non covava vecchi rancori, non era drogato, svolgeva un normale lavoro quotidiano… non aveva motivo per spararci addosso. È già successo che qualche giovinastro mi abbia sparato addosso solo perché non aveva voglia di pagare un pacchetto di sigarette. Vado in bestia, quand’è così. Ma fatti come questo, uccidere, restare uccisi, senza nessun motivo al mondo, nessunissimo motivo, sono la cosa peggiore che possa capitare.
Alzò di nuovo la bottiglia, e questa volta bevve. Il Mago lo guardò quasi incuriosito, come se stesse ascoltando un accordo che, nonostante la sua ampia conoscenza musicale, non riusciva a inquadrare. Disse, con comprensione: — Sei stato fortunato a non saltare per aria.
— Fortuna… Cosa significa, in realtà?
— Vuoi dire che il caso è solo questione di caso?
— È una domanda trita e ritrita, no? — Si mosse, scostandosi ancora, ma aveva aggrottato intensamente le sopracciglia a un ricordo che si formava nella luce del sole. — Potevo vedere… potevo vedere il tempo rallentare. Mentre ero sotto tiro. I secondi si allungavano… Magico Capo, ti giuro che ho visto il raggio laser tagliare l’aria centimetro per centimetro. Quello che ha ucciso. Non l’avrei mai visto in quel modo se non avessi saputo che avrebbe fatto centro. Ma come facevo a saperlo? Sapevo che avrebbe ucciso, e sapevo che non sarei stato io a morire. Come mai?
— Ho sentito parlare di cose del genere — disse piano il Mago. — Non le ho mai capite.
Aaron distolse l’attenzione dalla luce. — Mi era già capitato una o due volte. Ma ogni volta ne resto stupito. Sono costretto a chiedermi… quali altre cose conosco senza rendermene conto…
— Oppure, mentre sei impegnato a cercare altro, quali cose possono sfuggirti.
Aaron lo guardò. La luce diventava più intensa, si spargeva sul suo viso, gli portava via l’espressione e quasi tutto il colore dagli occhi. Rimase in silenzio per qualche istante. Il Mago sentì che raccoglieva il respiro e lo tratteneva, prima di formare le parole: — Tu come fai?
— Che cosa?
— A sapere le cose… prima che decida di raccontartele.
— Davvero?
Ci fu un altro silenzio. Poi Aaron continuò in tono asciutto: — Ti dico buon giorno, e mi chiedi chi è morto.
— Ah, capisco. — Alzò appena le spalle e si batté il dito sull’orecchio. — Faccio attenzione ai suoni. Era nella tua voce.
Aaron scosse la testa. — Non avevo ancora parlato. E tu fissavi il tuo caffè. Mi pagano per notare le cose. L’hai raccolto dall’aria. Non è la prima volta.
Il Mago sorrise. — Perché? Nascondi qualche tenebroso segreto che non vuoi che scopra accidentalmente? A questo punto, potresti anche confessarmelo, visto che… — Cambiò espressione mentre Aaron si spostava. Guardò accigliato il caffè ormai freddo, tendendo l’orecchio al silenzio che era sceso fra loro. Ma era un silenzio vuoto, che non gli offriva spunti. — Succede e basta, a volte — disse infine. — Tutto qui. Da quanto tempo ci conosciamo?
— Non so. Quattro, cinque anni. Da quando è nata l’idea di far fare ai poliziotti una parte del turno a piedi. Entrai nel Constellation Club e tu eri lì, e suonavi Bach e diventavi arancione.
Il Mago ridacchiò. — Se ero arancione, non era Bach. Cinque anni. Se uno del mio complesso fosse morto, e io fossi venuto da te la mattina dopo a dirti che era una bella giornata, come diavolo avresti reagito?
Aaron scosse la testa, nient’affatto convinto. — Non è solo questo…
— D’accordo. Certo che non è così semplice. Ma non è nemmeno così importante, e non ti tormenterebbe se tu non avessi qualcosa… — Si alzò improvvisamente, voltandogli la schiena. — Questo caffè sembra olio lubrificante. Aspetta un momento. E poi — aggiunse alzando la voce per superare i rumori del cucinino — nemmeno io ci faccia mai molta attenzione. Odio mettere in disordine la mia vita con quello che c’è nella testa di altra gente. Mi interessano la musica e il denaro. In quest’ordine. — Ricomparve con una nuova tazzina. — Forse, in quest’ordine.
— Il denaro ti piace — disse Aaron. La luce calda aveva risvegliato un po’ di colore sul suo viso; gli occhi arrossati sembravano sopportare un po’ meglio la mancanza di sonno. — Ma per la musica venderesti l’anima… se ne avessi una.
Il Mago si sedette. Esaminò l’interno consunto e rappezzato del Pianto volante con orgoglio, compiaciuto. — Se ho davvero un’anima — disse — ci siamo seduti dentro.
Aaron sorrise. Nella sua mente, il fuoco del cecchino lacerava l’aria buia come stoffa, ma il suo corpo non reagiva più al ricordo. Quelle immagini avrebbero accompagnato anche il suo ultimo pensiero da sveglio, lo sapeva, ma per il momento la compagnia del Mago le teneva a bada. — Suoni, stasera? — chiese. — I miei programmi cambiano talmente in fretta che non riesco a tenere a mente i tuoi.
Il Mago annuì. — Stanotte c’è il poker, al Constellation Club.
— Di nuovo?
— Cerco di insegnare a Sidney Halleck come si gioca a poker, una volta alla settimana durante gli intervalli, quando non è in giro a fare conferenze.
— Sidney vuole imparare a giocare a poker? E perché?
Il Mago si strinse nelle spalle. — Ha approfittato di cinque minuti in cui il suo cervello non aveva niente da fare, e si è interessato alle carte. Se in quel momento invece di giocare a poker avessi suonato la cetra tirolese, si sarebbe interessato alle cetre.
— Cos’è una cetra tirolese?
— Una specie di autoarpa.
— Ah — disse Aaron senza espressione.
Il Mago sorseggiò il caffè e continuò: — Pensa un po’, Sidney ha davvero una cetra tirolese. E lì che l’ho vista, nella sua collezione. Probabilmente possiede anche il tronco che qualcuno scavò per ricavarne un tamburo un milione di anni fa.
— Che cos’è un…
— Una cassa di risonanza piatta con un assortimento di cordicelle. Antiquata quanto il corno ricurvo. Sidney dice che ne ha trovato uno in una soffitta.
— Per gente come noi è già duro trovare una soffitta.
— Sidney è una calamita. Lui pensa a quello che vuole trovare, ed è l’oggetto stesso che trova lui.
— Allora sarà un giocatore di poker strepitoso.
Il Mago scoppiò a ridere. — È terribile. Non vuole niente di quello che le carte possono dargli.
— Pensa a quello che vuole… e l’oggetto trova lui?
— Secondo Sidney, sì. Lo conosci. Noi tutti vogliamo fama, denaro, potere… Sidney vuole uno strumento di 900 anni fa che gracida come una raganella. E la vita glielo dà, oltre a fama, denaro, potere…
— C’è una morale, in questo?
— Mi piacerebbe saperlo.
— Perché? Tu cos’è che vuoi, e che non hai avuto?
— Un cambiamento — disse il Mago, semplicemente. — Suoniamo al Constellation Club da cinque anni. Complessi come i Cygnus e gli Alien Shoe fanno tournée spaziali sfruttando solo tre accorai. Anche a me piacerebbero orchidee e alberghi orbitali, per non parlare del denaro. Forse allora avrei una spaziolancia con la ricevente che funziona. — Lanciò un’occhiata cupa al pannello sventrato. Aaron posò la bottiglia vuota e si stiracchiò. — Dimmi se ti serve… — Uno sbadiglio soffocò il resto della frase. Aaron batté vagamente le palpebre alla luce danzante. — Oddio — disse con gratitudine. — Sembra che il sonno stia arrivando, finalmente.
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