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Jack Vance: L'ultimo castello

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Jack Vance L'ultimo castello

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I due si scambiarono sguardi roventi. Appena un anno prima erano stati a un passo dal duello. Xanten, alto e snello, si distingueva per il suo infallibile istinto naturale, ma per il resto era troppo libertino per essere giudicato elegante. Strosso , lo definivano i conservatori, intendendo con tale appellativo evidenziare la sua fiacchezza e la sua mancanza di precisione. Insomma, non era il tipo da eleggere capo clan.

Comunque la risposta che diede a Garr fu abbastanza educata.

— Mi accollerò volentieri questo incarico e dal momento che bisogna agire in fretta, sopporterò di essere ritenuto troppo avventato e partirò immediatamente. Mi auguro di poter essere di ritorno per domani con qualche informazione. — Si alzò, si inchinò cerimoniosamente verso Hagedorn e se ne andò, salutando con un unico saluto onnicomprensivo tutti gli altri presenti.

Si diresse verso il Palazzo di Esledune, dove abitava al tredicesimo livello in un appartamento arredato in stile Quinta Dinastia, lo stile dell’epoca dei Pianeti Patrii di Altair, da cui gli uomini si erano mossi per tornare sulla Terra. Araminta, la sua attuale compagna, era fuori casa per faccende sue personali, cosa di cui si rallegrò immensamente. Dopo un’assillante serie di domande, lei sarebbe infatti arrivata alla conclusione che la sua spiegazione non aveva alcun valore, se non quello di nascondere un incarico da svolgere nella casa di campagna. A dire il vero era stanco di Araminta ed era sicuro che anche lei provava lo stesso: forse si era aspettata di più dal suo alto rango, soprattutto più brillanti funzioni sociali. Non avevano figli. La figlia che Araminta aveva avuto dal precedente compagno era stata calcolata a lei, quindi un secondo figlio sarebbe stato suo, impedendogli in tal modo, in base alle leggi del castello, di generarne altri.

Xanten si tolse gli abiti gialli che aveva indossato per il Consiglio e, aiutato da un giovane Contadino, indossò dei pantaloni da caccia giallo-scuro profilati di nero, una giacca nera e un paio di stivali dello stesso colore. Si calò sulla testa un morbido berretto di pelle nera e si mise una borsa su una spalla, nella quale ripose le armi: una lama a molla e una pistola a energia.

Lasciato l’appartamento scese all’armeria del primo livello, dove, fino a poco prima, avrebbe trovato un Mek pronto a servirlo. Adesso, invece, Xanten dovette andare personalmente dietro il bancone e cercare dappertutto con immenso disgusto. I Mek si erano portati via la maggior parte dei fucili da caccia, tutti gli eiettori di pallottole e le pistole a energia di un certo peso. Era un cattivo presagio, pensò Xanten. Finalmente trovò una sferza d’acciaio, dei proiettili a energia per la sua pistola, delle granate incendiarie e un potentissimo cannocchiale.

Tornò all’ascensore e si portò al livello più alto, immaginando malinconicamente la faticosa salita sulle scale che lo aspettava nel momento in cui il meccanismo dell’ascensore si fosse rotto senza un Mek pronto a ripararlo. Pensando agli apoplettici furori dei conservatori intransigenti quali Beaudry gli venne da ridere: che giorni li aspettavano!

Arrivato all’ultimo livello si avvicinò ai parapetti, diretto verso la sala radio. Anche lì solitamente erano presenti tre specialisti Mek che per mezzo di fili collegati dall’apparecchio alle loro branchie battevano a macchina i messaggi appena arrivavano. Ora davanti alla radio c’era B.F. Robarth, che stava cercando di capire il funzionamento delle manopole, pieno di disgusto e di disprezzo per quel lavoro.

— Novità? — chiese Xanten.

B.F. Robarth sogghignò.

— Credo che quelli all’altro capo del filo non conoscano questo apparecchio molto meglio di me. Ogni tanto riesco a captare qualche cosa. Credo che i Mek stiano attaccando Castel Delora.

— Cosa? Castel Delora è caduto? — domandò Claghorn, che era entrato nella stanza dietro Xanten.

— Non è ancora stato sconfitto, Claghorn, ma non ci sono speranze. A essere sinceri, le mura di quel castello, per quanto molto pittoresche, sono assai fragili.

— Che situazione nauseante! — mormorò Xanten. — Come possono degli esseri senzienti compiere azioni tanto crudeli? Dopo tutto questo tempo! Quanto poco li conoscevamo! — Stava ancora parlando quando si rese conto di essere stato del tutto privo di tatto. Claghorn aveva speso la maggior parte della sua vita a studiare i Mek.

— L’azione in sé non è poi così incredibile — replicò asciutto Claghorn — anzi, è già successa migliaia di volte nella storia umana.

Leggermente stupito di quell’accenno alla storia degli uomini a proposito di esseri inferiori, Xanten chiese: — Ma non era mai saltato fuori questo aspetto della loro natura?

— Mai. Davvero.

Claghorn era troppo suscettibile, sospettò Xanten, ma in fin dei conti era più che comprensibile. La sua teoria, illustrata durante la campagna elettorale di Hagedorn, non era per niente semplicistica. Xanten non la capiva e non era d’accordo con i suoi apparenti scopi. Era comunque lampante che la rivolta dei Mek aveva fatto franare tutte le costruzioni di Claghorn, mentre aveva dato ragione alle teorie conservatrici di Garr.

— Il modo di vita che avevamo non sarebbe potuto comunque continuare per sempre — disse Claghorn conciso. — È già durato molto.

— Può darsi — commentò Xanten suadente. — Comunque adesso non ha importanza. Tutto cambia. Come si fa a sapere? E magari i Contadini stanno per avvelenare il nostro cibo… Devo andare. — Si inchinò a Claghorn ricevendone in cambio un secco cenno del capo, quindi a B.F Robarth, infine uscì dalla sala radio.

Con una scaletta a chiocciola poco più grande di una scala a pioli si arrampicò fino ai ripari nei quali vivevano gli Uccelli, immersi nel caos più totale. Questi trascorrevano il loro tempo giocando d’azzardo, bisticciando o dedicandosi a uno strano tipo di passatempo simile agli scacchi, le cui regole nessuno era mai riuscito a capire.

A Castel Hagedorn vivevano cento Uccelli, custoditi da pazientissimi Contadini che ricevevano tutto il loro disprezzo. Si trattava di creature garrule, gialle, rosse o azzurre, dotate di un lungo collo e di una testa curiosa che si muoveva fulmineamente. Possedevano un’innata irriverenza che neppure la più rigida delle discipline e degli addestramenti riuscivano a controllare. Appena videro Xanten, commentarono beffardamente.

— C’è uno che vuole un passaggio. È pesante!

— Perché non fai spuntare le ali dai piedi?

— Non fidarti mai di un Uccello! Ti porteremo in alto nel cielo e poi ti faremo precipitare!

— Zitti! — urlò Xanten. — Voglio sei uccelli veloci e silenziosi per affidargli una missione della massima importanza. Qualcuno se la sente di assumersi tale incarico?

— Domanda se qualcuno è capace di farlo!

— Un ros ros ! Ma se nessuno di noi vola da una settimana!

— Zitti noi? Sarai tu a dover stare zitto, giallo e nero!

— E allora vieni tu, sì, tu con quegli occhi tanto da furbetto. E poi tu, con la spalla piegata, e tu, con il pompon verde. Al canestro.

I prescelti si lasciarono colmare i sacchi di sciroppo dai Contadini coprendoli di frasi sarcastiche e insulti, quindi svolazzarono fino alla portantina di vimini nella quale aspettava Xanten.

— Andiamo al deposito spaziale di Vincenne. Dobbiamo cercare di capire se hanno danneggiato le astronavi.

— Al deposito, allora!

Gli Uccelli afferrarono le corde dell’intelaiatura e la portantina si sollevò con un brusco strattone provocato apposta per far sobbalzare Xanten. Gli uccelli presero il volo ridendo, accusandosi a vicenda di non fare abbastanza per sostenere il peso… infine si adattarono a quell’incarico e iniziarono a volare sbattendo le ali contemporaneamente. La loro garrulità diminuì, con grande sollievo di Xanten, e si diressero verso Sud viaggiando a ottanta-novanta chilometri l’ora. La giornata stava per finire e la campagna, teatro di andirivieni, trionfi e sventure, era coperta da lunghe ombre nere. Guardandola, Xanten rifletté che nonostante la Terra fosse la patria dell’uomo e nonostante i suoi predecessori più vicini avessero cercato di mantenerla immutata, essa appariva ancora estranea.

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