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Robert Silverberg: Invasori silenziosi

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Robert Silverberg Invasori silenziosi

Invasori silenziosi: краткое содержание, описание и аннотация

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Stavano scendendo, adesso. Il tassì si abbassò in cerchi sempre più stretti sulla rampa dello Spaceway Hotel. Il maggiore Harris pagò il conducente, entrò nell’albergo e salì direttamente nella sua stanza, dove accese il comunicatore a raggio stretto: “Carver? Qui Harris.” “Harris! Hai potuto fuggire?” “Non esattamente. Mi hanno lasciato andare.” “E perchè? Come?” “E’ una lunga storia...” “Ma perchè ti hanno lasciato andare?” insistette Carver. “Sono diventato un loro agente” disse Harris in tono cordiale “La mia prima missione è quella di assassinarti.”

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Finalmente raggiunse il 115° isolato.

Una figura stava appoggiata con aria assente contro il fusto della lampada, all’angolo sud-est della strada. Harris gli si avvicinò rapidamente. Nella zona di luce riuscì a distinguere la faccia dell’altro: asciutta, solenne, con un’espressione di severa dignità.

Harris si fermò. L’uomo lo fissò con uno sguardo assente.

Harris disse, piano: «Scusate, amico. Sapreste dirmi dove potrei comprare una maschera da carnevale?»

Era la parola d’ordine. L’altro rispose con voce roca e profonda: «Le maschere sono care. Fareste meglio a starvene a casa.»

E gli tese una mano.

Harris l’afferrò, stringendola al polso, secondo l’uso di Darruu, e provando piacere alla stretta decisa dell’altro. A millecento anni-luce da casa, contemplare un altro Servo dello Spirito! Il fardello opprimente della nostalgia gli scivolò subito giù dalle spalle.

«Sono il maggiore Abner Harris» disse.

L’altro annuì. «Piacere di conoscervi. Io sono John Carver. C’è un tavolo riservato per noi, là dentro.»

Dentro si rivelò poi un locale chiamato Club dei Nove Pianeti , sull’altro lato della strada. L’atmosfera era umida e affumicata; globi di luce fredda di sei o sette colori giravano in tondo sul soffitto, trasformando in un arcobaleno la nube di fumo. Una fila di spogliarelliste dalle lunghe gambe danzavano allegramente accompagnate dal rumore rauco e discorde che i Terrestri chiamavano «musica». Harris pensò che i chirurghi non erano riusciti a istillargli la capacità di godere della musica terrestre, anche se avevano operato meraviglie in altri settori.

Una ragazza si avvicinò. Era una megamastide rigeliana, assai ben dotata, che letteralmente esplodeva dall’aderente tunica gialla. Scoccò un sorriso sinteticamente voluttuoso, il cui cinismo fece rivoltare lo stomaco a Harris, e disse: «Cosa volete bere, ragazzi?»

«Un cocktail Nove Pianeti.»

«E voi?»

Harris esitò. «Lo stesso» disse, dopo un attimo d’incertezza.

La ragazza si allontanò, ancheggiando. «Che cosa diavolo ho ordinato?» chiese Harris.

«Fa furore, quest’anno. Vedrete.»

Il cocktail Nove Pianeti si rivelò un intruglio fresco e opaco, in un alto bicchiere traboccante di ghiaccio. Harris lo gustò e avvertì un odore muschiato, ma non sgradevole. Sembrava un miscuglio di mezza dozzina di liquori diversi e di una specie di succo di frutta. Lo sorseggiò lentamente.

«Avete avuto guai, dopo il vostro arrivo?» chiese Carver, sottovoce.

«No. Dovevo aspettarmene?»

«I guai stanno bollendo in pentola» rispose l’uomo magro, stringendosi nelle spalle. «Prima o poi potrebbero verificarsi.»

«Guai di che genere?»

«Ci sono cento agenti di Medlin sulla Terra, ora» disse Carver. «Ieri abbiamo scoperto un importante nascondiglio di documenti medlinesi. Ora abbiamo i nomi dei cento agenti con le rispettive fotografie. Sappiamo anche che si propongono di sbarazzarsi di noi in un futuro non molto lontano.»

Harris incappò in un pezzo di ghiaccio e lo sgranocchiò, pensoso. «Quanti uomini di Darruu ci sono qui, ora?»

«Voi siete il decimo.»

Harris spalancò gli occhi.

Non credeva che la situazione fosse così grave. Cento a dieci!

«Una bella differenza!»

«È vero» annuì Carver. «Ma mentre noi conosciamo le loro generalità, i Medlinesi ignorano le nostre. Possiamo colpire per primi! Se non li eliminiamo, non potremo continuare il nostro lavoro quaggiù.»

La musica aveva raggiunto un crescendo da spaccare i timpani. Harris fissò di cattivo umore il corpo di spogliarelliste e aggrottò la fronte. Il suo travestimento terrestre stava forse prendendogli la mano? Strano a dirsi, aveva provato una reazione ghiandolare alla vista di quelle figure piroettanti. Eppure, stando agli standard di Darruu, quelle ragazze erano brutte in modo osceno.

Ma lì non era Darruu.

Strinse con forza il bicchiere mezzo vuoto. «In che modo elimineremo questi cento Medlinesi?» chiese.

«Abbiamo delle armi. Avrete le indicazioni necessarie. Fate i vostri calcoli. Se riuscite a eliminarne dieci prima che loro becchino voi, e se noi tutti faremo la stessa cosa, saremo a posto.» Carver estrasse un portafoglio da sotto la camicia e con dita scarne e nervose ne tolse un’istantanea. «Ecco qui la vostra prima vittima. Uccidetela, poi riferite a me. La missione dovrebbe essere facile, perché lei alloggia allo Spaceways Hotel , proprio come voi.»

Harris si sentì balzare il cuore in petto. «Una medlinese nel mio stesso albergo?»

«E perché no? Ce ne sono dappertutto. Guardate un po’ la foto.»

Harris la prese e l’osservò. Era una lucida tridimensionale a colori. Mostrava una ragazza bionda vestita di un abito nero, corto e aderente. Sembrava che l’istantanea fosse stata scattata da un obiettivo nascosto, durante una festa. La ragazza rideva, agitando un bicchiere da cocktail, e dietro a lei s’intravvedevano altre figure.

«È troppo carina per essere un agente di Medlin» disse Harris, controllando la voce.

«Per questo è tanto pericolosa» replicò Carver. «Uccidetela per prima. Si fa chiamare Beth Baldwin.»

Harris fissò a lungo la foto. Le tempie gli battevano forte, e uno strano turbine di emozioni gli mulinava nel cervello. La ragazza… una spia? Ripensò alla serata trascorsa in sua compagnia, alla sensazione di calore e di amicizia che aveva provato accanto a lei. «Uccidetela per prima» aveva detto Carver.

«Qualcosa che non va, maggiore?»

«No. Niente.»

«Avete un’aria… molto preoccupata.»

«È soltanto effetto del viaggio» disse Harris. Gli rese la foto incriminata e soggiunse: «Okay. Missione accettata. Mi rimetterò in contatto con voi a lavoro ultimato.»

«Bene. Un altro drink?»

Harris era incerto. Il primo lo aveva lasciato col capogiro e un certo malessere alla bocca dello stomaco. Il suo metabolismo non accettava completamente quegli idrocarburi terrestri.

Tuttavia annuì con prontezza. «Sì, sì. Ne prendo un altro.»

Erano quasi le due del mattino quando Harris raggiunse il suo albergo. Aveva trascorso più di un’ora col conterraneo chiamato John Carver. Si sentiva stanco, confuso, con la testa vuota. Era costretto a prendere decisioni che lo spaventavano, proprio all’inizio della sua missione sulla Terra.

Beth Baldwin una spia di Medlin?

Gli sembrava impossibile. Eppure Carver gli aveva mostrato la foto. Poteva trattarsi di un errore? No. Carver non avrebbe mai commesso uno sbaglio in una faccenda del genere. Beth era stata riconosciuta con sicurezza, altrimenti Carver non avrebbe dato l’ordine di ucciderla.

E toccava proprio a lui farlo. Ora… Un compito che non gli era concesso di rifiutare. Lui era un Servo dello Spirito. Non poteva tradire la fiducia degli altri.

Ma prima di commettere un’azione irreparabile, avrebbe fatto qualche accertamento. Dopotutto, Carver non era infallibile. E lui non voleva macchiarsi l’anima di sangue innocente.

Salì con l’ascensore fino al 58° piano, ma invece di raggiungere la sua stanza, voltò a sinistra e s’inoltrò nel corridoio, verso la camera 5820: il numero che gli aveva dato Beth Baldwin.

Sostò un attimo fuori della parola, poi diede un colpetto al congegno di avviso.

Nessuno rispose. Lui aggrottò la fronte e ritentò. Questa volta sentì il ronzio di un dispositivo di controllo sopra la sua testa e capì che la ragazza era sveglia e proprio dietro l’uscio.

«Sono io, Abner» disse lui. «Devo vedervi, Beth.»

«È tardi. È notte inoltrata.»

«Mi spiace avervi svegliato, ma devo parlarvi. È importante.»

«Aspettate» rispose la voce assonnata dall’interno. «Mi metto addosso qualcosa.»

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