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Robert Silverberg: Invasori silenziosi

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Robert Silverberg Invasori silenziosi

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Stavano scendendo, adesso. Il tassì si abbassò in cerchi sempre più stretti sulla rampa dello Spaceway Hotel. Il maggiore Harris pagò il conducente, entrò nell’albergo e salì direttamente nella sua stanza, dove accese il comunicatore a raggio stretto: “Carver? Qui Harris.” “Harris! Hai potuto fuggire?” “Non esattamente. Mi hanno lasciato andare.” “E perchè? Come?” “E’ una lunga storia...” “Ma perchè ti hanno lasciato andare?” insistette Carver. “Sono diventato un loro agente” disse Harris in tono cordiale “La mia prima missione è quella di assassinarti.”

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I minuti passarono, ticchettando. L’altoparlante ronzò di nuovo, e infine annunciò che la Lucky Lady aveva attraccato alla stazione orbitale. Era venuto il momento di lasciare la nave.

Harris uscì dalla cabina per l’ultima volta e scese sul ponte D, dove i passeggeri stavano radunandosi. Riconobbe il viso di alcune persone con cui aveva scambiato qualche parola durante il viaggio e salutò educatamente con un cenno del capo, con dignità militare.

Gli si avvicinò un impiegato. «Tutto bene, signore? Desiderate niente?»

«Dov’è il bagaglio?» chiese Harris.

«Verrà spedito automaticamente. Non dovete preoccuparvene.»

«Non vorrei che andasse perso.»

«Ogni collo ha la sua etichetta, signore. Il sistema di controllo elettronico non sbaglia mai.»

Harris annuì. Il suo bagaglio era molto importante.

«Nient’altro, signore?»

«No, è tutto.»

Più di trecento passeggeri della Lucky Lady lasciavano la nave. Harris fu avviato con gli altri verso una camera stagna aperta. Parecchie decine di traghetti brutti e piccoli se ne stavano fermi all’esterno, uniti al transatlantico stellare con cavi di collegamento dall’aria precariamente esile.

Harris entrò in uno dei condotti, lo percorse aggrappandosi al corrimano e trovò un posto libero nel traghetto. Questo si riempì rapidamente, e un impulso di energia ionica lo fece schizzare via nello spazio, per un volo di soli pochi minuti. Un attimo dopo, Harris stava attraversando un altro tunnel, mentre il traghetto scaricava i passeggeri nella camera stagna principale della Stazione Orbitale Numero Uno.

Fu salutato da luci violente, ma i suoi occhi rifatti si adattarono facilmente all’intensità luminosa.

«I passeggeri della Lucky Lady che proseguono per la Terra si portino immediatamente al Canale di Smistamento Quattro. Ripetiamo: i passeggeri della Lucky Lady che proseguono per la Terra si portino immediatamente al Canale di Smistamento Quattro. I passeggeri che trasbordano su altre linee spaziali sono pregati di presentarsi immediatamente al più vicino ufficio smistamento. Ripetiamo: i passeggeri che trasbordano su altre linee spaziali…»

Harris cominciò a sentirsi un po’ come una balla di merce anonima. C’era qualcosa di estremamente impersonale nel modo in cui quei Terrestri mandavano da Erode a Pilato. Su Darruu si era assai più cerimoniosi.

Ma quello, doveva averlo sempre ben presente, non era Darruu.

Seguì una luce ammiccante attraverso un labirinto di corridoi e sboccò in un posto che si autodefiniva in una infinità di lingue «Canale di Smistamento Quattro». Si mise in coda alla fila.

Gli ci volle mezz’ora per arrivare in testa. Un terrestre dall’aria mite, seduto dietro una scrivania, gli sorrise. «I documenti, per favore.»

Harris gli allungò la busta di finta pelle. Il funzionario dello spazioporto controllò con aria assonnata e gliela rese senza una parola, stampando un timbro sul margine di un foglio. Un cenno della testa, e lui poté attraversare la soglia.

Mentre saliva sul traghetto Earth-Orbiter , un’attraente hostess lo salutò con un sorriso cordiale. «Benvenuto a bordo, maggiore. Avete fatto buon viaggio, finora?»

«Non posso lamentarmi, grazie.»

«Ne sono lieta. Ecco qui alcune informazioni che forse vi faranno comodo.»

Lui prese il foglio stampato e si accomodò su un sedile. Le informazioni erano del genere che interessa il turista. Harris le scorse rapidamente.

La Stazione Orbitale si trova a centoventimila chilometri dalla Terra. È agganciata in un’orbita perpetua di ventiquattr’ore e sorvola approssimativamente Quito, l’Equador, il Sudamerica. Nel corso di un anno la Stazione Orbitale serve in media 8.500.000 viaggiatori…

Harris lesse il foglio, poi lo appallottolò e lo ficcò nel contenitore per la carta straccia assicurato al bracciolo. Per fare esercizio di memoria, si raffigurò col pensiero il Sud America e localizzò l’Equador. Quindi, soddisfatto, si appoggiò allo schienale e osservò i compagni di viaggio che si trovavano con lui sul traghetto. Erano una cinquantina.

Cinque, a parer suo, dovevano essere Darruuesi travestiti come lui, anche se non poteva affermarlo con sicurezza. Oppure potevano essere nemici, Medlinesi, pure mimetizzati. O magari agenti dei servizi di sicurezza della Terra, che avevano già scoperto il suo travestimento e che lo avrebbero schiaffato in gattabuia nell’istante stesso in cui il traghetto fosse atterrato.

C’erano pericoli dappertutto. Interiormente il maggiore si sentiva calmo, sicuro delle proprie capacità e degli scopi che si proponeva, nonostante quella lieve nostalgia di Darruu, che però era certo di non riuscire a cancellare mai.

Il traghetto s’inclinò in una ripida curva di decelerazione. Naturalmente la gravità artificiale, a bordo, non subì variazioni.

La Terra si avvicinò.

Venne il momento dell’atterraggio.

Il veicolo rimase sospeso sulla superficie del campo per trenta secondi, poi scese, posandosi con leggerezza. Una gru a cavalletto uscì, furtiva, per sostenerlo, e quattro supporti spuntarono dai fianchi dello scafo.

La voce untuosa di uno steward disse: «I passeggeri sono pregati di avviarsi alla camera stagna, in fila per uno.»

I passeggeri si misero disciplinatamente in coda, attraversarono disciplinatamente la camera stagna e uscirono nell’atmosfera della Terra. Un torpedone verde li aspettava per trasportarli all’ufficio arrivi. Sempre disciplinatissimi, i cinquanta passeggeri salirono uno dopo l’altro.

Harris trovò posto presso un finestrino e osservò il campo d’atterraggio spazioso. Nel cielo azzurro brillava un sole giallo. L’aria era fredda e rarefatta. Rabbrividì e si avvolse nel mantello per scaldarsi.

«Freddo?»

L’uomo che gli aveva rivolto la domanda era seduto accanto a lui. Un tipo grasso, abbronzatissimo e prosperoso, con labbra carnose e un’espressione piena di sollecitudine.

«Un po’» disse Harris.

«Strano. In una bella mattina profumata di primavera come questa, tutti dovrebbero sentirsi a meraviglia. Vi siete beccato la malaria o qualcosa del genere, in servizio?»

Harris scosse la testa, ridendo. «No, niente affatto. Ma sono vissuto su mondi molto caldi, in questi ultimi dieci anni. Appena si scende sotto i trentadue, comincio a rabbrividire. La forza dell’abitudine.»

«Mi sa che siamo vicini ai ventisette all’ombra, oggi» rise l’altro.

«Mi riabituerò presto al clima della Terra» replicò Harris, disinvolto. «Sapete com’è: terrestre una volta, terrestre per sempre.»

«Già. Su che pianeti siete stato?»

«Non posso rispondere.»

«Capisco.»

All’improvviso il suo compagno di viaggio si disinteressò di lui. Harris annotò mentalmente che doveva sistemare il termostato, appena possibile. Infatti la sua pelle era foderata di unità ultraminiaturizzate per regolare il riscaldamento e la refrigerazione: questo era soltanto uno dei numerosi e utilissimi congegni di cui i chirurghi lo avevano dotato.

La temperatura media su Darruu si aggirava intorno ai 48 gradi della scala usata dai Terrestri sul suo pianeta d’origine. (Che tipo di civiltà era mai quella, che usava tre o quattro scale diverse per misurare la temperatura?) Quando su Darruu si scendeva sotto i 26, i Darruuesi imprecavano contro il freddo e s’infilavano gli indumenti invernali. Per questo lui ora si sentiva gelare, in stridente contrasto con chi gli stava intorno. Pensò che sarebbe stato così per tutto il giorno, se non fosse riuscito ad appartarsi un attimo e a regolare gli appositi congegni. I Terrestri che viaggiavano con lui sudavano abbondantemente e soffrivano il caldo.

Finalmente l’autobus fu al completo e si avviò verso un edificio in metallo scintillante e plastica verde con un’alta cupola. Un tragitto di dieci minuti. «Prima sosta, alla dogana» gridò il conducente. «Preparate i documenti.»

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