«Per farlo, ci vorrebbero ragioni che potessero soddisfare i cittadini di Londra. Possiamo sembrarvi decadenti o inefficaci, John. Ma nutriamo ancora qualche illusione. E anche noi diamo un valore altissimo alle nostre nozioni in fatto di libertà individuale... Al diavolo le mutazioni, per questa sera sono stato abbastanza solenne. È tempo che intrattenga un po’ gli altri ospiti.»
Mentre tornava con Vivain nella Sala Grande, Markham si sentiva veramente perplesso. Gli pareva che, appena formata un’opinione sulla gente e sulle usanze del ventiduesimo secolo, l’opinione stessa subisse una smentita immediata.
Trovarono Algis afflitto da un eccesso di danza, di alcol e di compagnia di Marion-A.
«Spero che i giardini tropicali vi siano piaciuti» disse il giovane, con un’occhiata velenosa a Markham.
«Immensamente.»
«Siamo stati a chiacchierare con Clement» disse Vivain in tono conciliante. «Voleva vedere John.»
Norven sorrise ironico. «Tutti vogliono vedere John» disse. «Però io preferisco vedere te.» Si rivolse a Markham. «Grazie d’avermi prestato l’androide. Ve lo restituisco con gioia... Programmata in modo straordinario, però. E balla meglio di me.»
«Ha molte virtù insospettate» disse Markham, sorridendo.
Marion-A ricevette il complimento con un sorriso rigido. Molti ospiti avevano già cominciato ad andarsene, e Markham si chiedeva se fosse una buona idea tentare una ritirata strategica. Non sopportava più di stare chiuso lì dentro. Inoltre, molte cose erano successe nel corso della serata. Cose sulle quali doveva riflettere.
Guardò Algis e poi Vivain. E all’improvviso desiderò allontanarsi da entrambi.
«Sono terribilmente stanco» disse. «Mi sono successe troppe cose nuove tutte insieme. Ho bisogno di un po’ di riposo... e di solitudine.»
«Sì, immagino che la vita vi sembri ancora un po’ sconvolgente» disse Norvens in tono divertito. «Prendetela con calma, John, altrimenti diventerete triste.»
Markham sorrise. «Questa è la sera dei consigli saggi, pare.» Prese la mano di Vivain. «Ringrazia tuo padre e fagli le mie scuse, vuoi? Digli che rifletterò attentamente su quello che mi ha detto.»
Lei gli strinse gentilmente la mano. «Abbi cura della tua psiche primitiva, caro... e non pensare troppo. Ti fa male» gli disse poi.
Lui rise. «Conosco almeno un modo per evitare di essere cerebrale. Posso sempre ricorrervi, non credi?»
«Sì» mormorò Vivain. «E spero che tu lo faccia prestissimo...»
Markham lasciò la Sala Grande con Marion-A al fianco.
Quando uscirono dall’ascensore, ai piedi del Palazzo, già il senso di claustrofobia si stava dileguando.
Si sdraiò pigramente sul sedile dell’eliauto, sospirò di sollievo e sentì che la tensione diminuiva. Poi ordinò a Marion-A di salire con l’eliauto a trecento metri. Volle restare fermo lassù per qualche minuto, a contemplare la City; cercava invano di ricordare un sogno che sonnecchiava in fondo al suo cervello. Alla fine vi rinunciò, e l’eliauto scese lentamente verso Knightsbridge.
Dapprima, il mondo del ventiduesimo secolo gli era sembrato simile a un sogno incoerente, ma a poco a poco il sogno stava prendendo i contorni di una realtà accettabile.
Mentre le frizzanti giornate settembrine si accorciavano sfumando nella magia solitaria e nebbiosa dell’ottobre, Markham si accorse che stava orientandosi rapidamente. Tutto quello che in precedenza l’aveva sorpreso e scandalizzato, ora gli ispirava una fredda disapprovazione intellettuale. Tutto quello che prima gli era sembrato grottesco o anormale, gli appariva invece inevitabile, quasi naturale, in un mondo che solo adesso cominciava a capire a fondo.
Intravedeva già il problema base. In modo oscuro e personale, stava scegliendone le soluzioni. E il problema era simbolizzato da Marion-A.
Markham ricordava perfettamente il mattino passato a Hampstead Heath, e l’incontro col professor Hyggens. Ricordava quasi parola per parola la storia del professore: il modo in cui il numero degli allievi androidi del corso di filosofia si era accresciuto fino ad annullare quello degli esseri umani, il collocamento a riposo del professore e l’entrata in carica al suo posto di un ex allievo androide, capace di tenere le lezioni con maggiore rapidità ed efficienza. Ricordava di avere chiesto al professor Hyggens perché mai gli androidi volessero studiare filosofia. E ricordava la risposta.
La filosofia ,aveva detto il professore, è vita. Almeno è uno dei grandi aspetti della vita... della vita intelligente. Ecco perché gli androidi vogliono immetterla nei loro circuiti. Così possono valutare i problemi della vita.
Poi c’era stata l’altra domanda, che il professor Hyggens gli aveva fatto a bruciapelo: hai mai cercato di definire la vita, John?
Mentre meditava sulla discussione che aveva avuto luogo in Hampstead Heath, Markham si lambiccava di nuovo con la definizione elusiva del concetto vita.
Ma voleva immagini, non concetti. Voleva elementi comuni per poterli riconoscere e dire: questa è la natura della vita. Questa è la base di tutte le cose viventi.
Le immagini erano acute e chiarissime, ma il loro elemento comune, il fattore x, era, quando si veniva ad esaminarlo, più elusivo del significato di musica, e tuttavia a portata di mano come il segreto della poesia.
Immaginò in accostamento Budda e un singolo batterio, Leonardo da Vinci e un grano di frumento, una sequoia e una spora di fungo. Pensò a Johnny e a Sarah. Ma il fattore x continuava a sfuggirgli. Poi, finalmente, si ricordò di un’immagine doppia. Un’immagine che poneva il problema in termini semplici e assoluti. Pensò a Katy e a Marion-A.
Katy era stata viva e adesso era morta da molto tempo. Marion-A era stata rimodellata per assomigliarle. Ma non era Katy e non era una donna: era soltanto una macchina.
Soltanto una macchina?
A dispetto di tutti i suoi sforzi, Markham si trovava punto e daccapo.
Katy era stata concepita e messa al mondo. Marion-A era stata costruita. Katy era stata educata e istruita, Marion-A era stata programmata. E la programmazione era complessa, raffinata e, soprattutto, adattabile. Ma adattabile in che senso? Questo suggeriva un’ulteriore domanda: poteva Marion-A essere programmata per vivere?
Ecco il problema base, complicato dal fatto che la vita non poteva essere definita: poteva solo essere ricostruita.
Marion-A possedeva tutti i dati che le occorrevano per compiere con efficienza le funzioni per le quali era designata. Ma la programmazione non terminava quando il suo cervello veniva collaudato al dipartimento di prova dell’impianto per la riproduzione degli androidi. Perché Marion-A era fatta in modo tale che il suo programma base poteva venire ampliato o modificato dall’esperienza. In teoria, dunque, sarebbe stata capace di reazioni non anticipate dai suoi progettatori, a meno che questi non le avessero inserito un circuito di inibizioni per essere certi che, nonostante la presenza di un qualsiasi stimolo, la sua condotta si sarebbe accordata alle limitazioni imposte dalla programmazione originale.
Ma, nelle creature viventi, le inibizioni possono venire rimosse. E se ne possono creare di nuove. Markham si chiedeva se sarebbe stato possibile distruggere qualcuna delle inibizioni di Marion-A, e in caso affermativo, se sarebbe stato possibile anche crearne di nuove.
E all’improvviso capì che stava per accingersi a una impresa, una specie di esperimento. Questo non l’avrebbe condotto necessariamente a scoprire se gli androidi potessero essere considerati vivi. Ma se non altro il risultato avrebbe fornito qualche indicazione su ciò che lui e il resto dell’umanità si trovavano a fronteggiare.
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