Con dolorosa sorpresa, comprese che stavano volando sopra la foresta di Epping, e che tra pochi secondi si sarebbe trovato direttamente a picco sulla camera K, dove era rimasto rinchiuso per tutti quegli anni come un pezzo di carne congelata. La zona brulla era dovuta probabilmente alla bomba atomica e al missile che l’aveva imprigionato nella cella frigorifera, con la forza della sua esplosione.
Fissò la foresta, affascinato, voltandosi a guardarla finché non scomparve alla vista. Quando tornò a guardare davanti a sé, vide la periferia della capitale, che ancora recava le vaste, incancellabili cicatrici dell’Epopea dei Nove Giorni: ma era viva e duratura, e aveva l’aspetto di poter sopravvivere anche alla razza che l’aveva edificata.
Poco dopo, vide qualcosa che gli fece appannare gli occhi e gli causò una fitta acuta di dolore nel petto, un dolore non soltanto fisico, ma troppo profondo per essere sopportato a lungo. Cercò di scacciarlo con la forza della volontà, ma il dolore permaneva, pesante come piombo, più gelido di tutto il ghiaccio della camera K.
Laggiù c’era Hampstead Heath... incredibilmente mutato.
«Gira» ordinò a Marion-A con voce roca e indistinta. «Sorvola lentamente questa zona... e mantieniti a bassa quota... Hampstead. Io... io ci voglio dare un’occhiata.»
«Sì, signore.»
Sapeva che Marion-A non era sorpresa o curiosa. Gli androidi non provavano sorpresa o curiosità, a meno che non fosse necessario. Non si preoccupò nemmeno di farle dire: Sì, John.
Hampstead Heath era più lindo, più fresco che mai. Dov’erano gli innamorati che vi avevano passeggiato sottobraccio? Dov’erano i bambini che avevano corso e lanciato aquiloni, e sparpagliato attorno gli involti di innumerevoli merende sull’erba calpestata?
Dov’erano i fantasmi di migliaia e migliaia di ieri ? E soprattutto dov’erano i fantasmi dei tre esseri che aveva amato?
Caldi, vivi fantasmi! Tutto quello che un uomo può desiderare. Tutto quello che lui non avrebbe potuto avere mai più...
Ma il giardino era deserto, c’erano soltanto gli alberi, l’erba, i fiori e il sole. E tutti i bisbigli che il vento si portava via.
«Trova un punto per atterrare» disse a Marion-A. «Voglio stare un po’ qui. Voglio fermarmi a pensare.»
Senza rispondere, Marion-A scelse un bel prato liscio e portò gentilmente l’eliauto al suolo. Per un paio di minuti Markham non scese. Rimase seduto nella cabina, osservando. Guardando e pensando. E ricordando, soprattutto.
«Vuoi una sigaretta, John?»
Guardò Marion-A sorpreso, e di colpo sorrise. «Stai imparando.»
Per un poco fumò in silenzio, poi aprì la portiera dell’eliauto. Dopo un istante di esitazione, saltò a terra e si stiracchiò.
«Forse farò due passi. Non c’è una particolare fretta per andare ad iscriversi nei registri, vero?»
«No. L’ufficio resta aperto in continuazione. Vuoi che ti accompagni?»
«Sì.»
Marion-A uscì dall’eliauto e rimase in attesa, mentre Markham si guardava in giro per contemplare un quadro rimasto stranamente identico, ma che si presentava in un certo senso più selvaggio poiché non era più devastato da migliaia di passeggiate domenicali. Infine Markham prese Marion-A per mano e cominciò a camminare speditamente verso una collinetta che distava tre o quattrocento metri.
«Le fantasie e le illusioni sono importanti» disse sottovoce. «Quando gli uomini cominciano a perderle, cominciano anche a morire... Gli androidi non muoiono, vero?»
«No, John.»
«Perché no?»
«Perché non vivono» rispose Marion-A. «La loro motivazione è sintetica, il loro scopo, puramente funzionale.»
«Bene, per un po’ potrai smettere di essere funzionale, Marion-A. Puoi diventare parte della mia fantasia. Sarai un membro onorario della società predestinata dei viventi. In breve, fai finta di essere una donna. Fai finta di goderti il sole, l’erba sotto i piedi, il vento.»
Quattro o cinque minuti dopo raggiunsero la collinetta, e Markham trovò un angolo adatto per sedersi. Sudava e respirava affannosamente, non per il sole, ma per lo sforzo di avere percorso cinquecento metri. Rimase un poco sdraiato sul dorso, con gli occhi chiusi, assaporando la durezza rassicurante del terreno sotto di sé e la carezza gentile del vento e del sole sulla pelle.
Si abbandonò a un tepore di sogni a occhi aperti e di ricordi, finché la voce di Marion-A lo riportò alla realtà presente.
«Si avvicina qualcuno, John. Forse vuole parlarti.»
Markham si rialzò di scatto: vide un uomo grosso e di una certa età che veniva verso di loro. Lo sconosciuto indossava una tunica rosso cupo, sul tipo di quella che indossava Markham, e un paio di pantaloni molto ampi, la tenuta normale di un uomo del ventiduesimo secolo. Era senza cappello, e quando fu più vicino, Markham poté vedere che portava i capelli lunghi come una donna, e se li teneva aderenti alla testa per mezzo di due forcine. La faccia abbronzata e gonfia era solcata da rughe di preoccupazione; ma gli occhi alquanto distanti fra loro, miglioravano in un certo senso quei lineamenti con la loro luce maliziosa e vagamente divertita.
«Salve» disse lo sconosciuto. «Bella giornata per chi non soffre di inibizioni, vero? Non avevo mai incontrato un barbaro sessuale... a parte i leoni e le altre bestie, si capisce. Anche loro hanno una forma di fedeltà, in fondo. Però, nemmeno loro vogliono soltanto vivere... Vi dispiace se mi siedo?»
Markham era strabiliato. «Non ho niente in contrario. È un paese libero, no?»
«Così dicono» borbottò lo sconosciuto, calando cautamente la sua mole sull’erba. «E chi siamo noi per osare di contraddirli? Che bell’androide vi hanno dato. Ha l’aria quasi intelligente.» Poi si rivolse bruscamente a Marion-A. «Classificazione, qualifica e funzione... presto!»
«A-tre-alfa» rispose Marion-A. «Con quale diritto, signore...»
«Lasciate perdere. Sono un tipo strambo.» Si rivolse a Markham. «Un androide in gamba. Sanno essere svegli, ma noi possiamo essere anche più svegli. Potete sempre indurli a confessare il loro livello funzionale, se sapete scegliere il momento giusto. Ora ordinatele di andare a cercare quadrifogli per una ventina di minuti.»
Markham si indignò.
«Che cosa diavolo vi siete messo in mente?» disse.
«Voglio fare quattro chiacchiere in pace con voi» rispose, imperturbabile, lo sconosciuto. «Le piccole androidi hanno grandi orecchie, mio caro amico... e memoria lunga. Un fatto che non imparerete mai abbastanza presto. Adesso siate gentile e mandatela dove non possa sentirci.» Fece una risata cupa. «Potrete sempre gridare aiuto, se dovessi farvi proposte che non vi piacciono.»
«Marion, ti dispiace lasciarci soli per un po’?»
«Non chiedeteglielo, ordinateglielo» disse lo sconosciuto a mezza voce.
Markham si voltò a guardarlo.
«Se la mettete così, credo che non avremo molto da dirci.»
Marion-A si alzò. «Per quanto tempo desiderate restare solo con questo signore?» chiese.
«Per una decina di minuti, credo. Resta dove posso vederti, così verrò io a cercarti appena sarò pronto per partire.»
«Benissimo, signore.» L’androide diede un’occhiata allo sconosciuto, ma senza traccia di animosità, e si allontanò.
«Mi ha guardato per imprimersi nella memoria la mia faccia» disse amabilmente lo sconosciuto. «A-tre-alfa... Darà la mia descrizione allo Psicoprop, a meno che non le raccontiate una frottola. Di quelle che gli androidi bevono facilmente.»
«Forse adesso vorrete spiegarmi che cosa è questa storia» disse Markham. «Sono alquanto curioso.»
Lo sconosciuto sorrise, mettendo in mostra una dentatura ingiallita. «Voi siete il Sopravvissuto, vero? John Markham. Se vi dicessi il mio nome potreste procurarmi vent’anni in animazione sospesa, se avrò fortuna, o un lavaggio del cervello se non ne avrò... ammettendo che riusciste a trattenermi finché il vostro androide non si fosse messo in contatto con il Gruppo della City. Perciò vi dirò il mio nome e ne farò un problema di etica: un problema vostro. Sono Gray Walta Hyggens, un tempo professore di Filosofia all’Università di Oxford, che Dio l’abbia in gloria... Chiamatemi soltanto professore.»
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