Kenniston vide negli occhi di lei, fra le lacrime, un desiderio disperato, mentre bisbigliava: «È una gioia solo a pensarci... poter tornare alla nostra città, alle nostre case, alla nostra gente...»
Kenniston capiva, ora. Nell’intimo di Carol vi era una disperata nostalgia per la vecchia città, per il vecchio modo di vivere. E quella nostalgia era talmente profonda che riusciva a vincere qualsiasi timore.
Kenniston la prese tra le braccia e la baciò. Le accarezzò i capelli, e frattanto pensava: “Sì, mi ama... ma solo come una parte della vita che se n’è andata, non me solo, non solo John Kenniston, ma il Kenniston di Middletown. E sarà ancora felice con me se potremo trasformare la nostra vita sino a farla assomigliare un poco alla vita di prima”.
Ma perché quel pensiero non gli portava nessuna gioia? Perché pensava a Varn Allan, in quel momento, stanca e sola, che affrontava coraggiosamente l’intero universo, portando un peso e svolgendo un compito troppo grave per lei?
«Com’era la vita, Ken, lassù?» gli stava domandando Carol.
Kenniston scosse il capo.
«Una vita strana...» disse «e ostile... e anche bella, ma in un modo terribile.»
«Credo che ti abbia cambiato» disse Carol. «Un poco, sì. Ma credo che cambierebbe chiunque.»
E rabbrividì come se, anche solo a toccarlo, sentisse il respiro gelido delle profondità sconosciute, degli abissi infiniti che egli aveva attraversato.
«No, Carol» disse Kenniston «non sono cambiato. Ma non posso rimanere, ora. Debbo ritornare... ogni minuto è prezioso...»
Mentre si affrettava per raggiungere gli altri, Kenniston si accorse che Nuova Middletown era invasa da una eccitazione frenetica. Voci lo chiamavano, mani cercavano di trattenerlo, uomini e donne volevano fargli domande. Fu lieto quando poté raggiungere gli altri attorno al grande pozzo.
Gorr Holl gli sorrise.
«Ora, mettiamoci al lavoro!» disse.
Per un tempo che gli parve un’eternità, Kenniston lavorò con gli altri. Fabbri e meccanici furono reclutati nella popolazione, fu fatta incetta di metalli e attrezzi. Materiali furono trasportati dall’incrociatore spaziale fino al pozzo. I martelli battevano con assordante clamore, lavorando il metallo su forge improvvisate.
Venne così costruita, gradualmente, penosamente, a prezzo di sforzi e sudore, una grande incastellatura al disopra del pozzo.
Magro lavorava coi tecnici per mettere a punto gli inneschi, nonché i comandi elettrici che, da lontano, avrebbero fatto scendere ed esplodere l’ordigno.
Kenniston aveva poco tempo per pensare. Eppure la sua mente ritornava stranamente a Varn Allan, chiusa nella cabina a bordo dell’incrociatore spaziale, e si domandava a che cosa stesse pensando.
Venne il mattino. La città doveva essere abbandonata a mezzogiorno. Uomini e donne tenevano riuniti i bambini, pronti ad allontanarsi. Non avrebbero preso nulla con loro. In un modo o nell’altro, non avrebbero più avuto bisogno di nulla.
La massa nera ovoidale della bomba fu posta in posizione accanto al pozzo. Con essa vennero approntati altri quattro oggetti rotondi, assai più piccoli, di aspetto del tutto diverso.
«Sono bombe di sicurezza» spiegò Arnol. «Le abbiamo preparate nel laboratorio dell’incrociatore spaziale durante il viaggio. Verranno lasciate cadere dopo la bomba nucleare ed esploderanno nel pozzo prima di essa, per sigillarlo e impedire qualsiasi ripercussione quassù dello scoppio.»
Kenniston guardò i tecnici mentre disponevano le bombe sulla incastellatura, l’una al disopra dell’altra. La caduta di quelle bombe sarebbe avvenuta per mezzo di un telecomando.
Kenniston sentiva aumentare i suoi timori, mentre il momento fatale si avvicinava. Pensava agli abitanti di Middletown che avevano accettato con fiducia l’autorità degli scienziati: con la medesima fiducia noncurante con la quale gli uomini avevano un tempo accettato l’autorità degli stregoni e dei maghi.
Sperava almeno, se l’esperimento si fosse risolto in un disastroso insuccesso, di poter avere la fortuna di non sopravvivere.
Gli esperti elettronici stavano lavorando disperatamente per terminare gli intricati contatti dei meccanismi che avrebbero dovuto rispondere ai comandi con infinita precisione.
Una delle travi della incastellatura aveva leggermente ceduto, e gli operai sudavano per sostituirla.
Ancora poche ore, ormai, e tutto sarebbe stato pronto. Per mezzogiorno, o poco più tardi, avrebbero saputo se la Terra doveva vivere o morire.
In quel momento, uno degli uomini di Arnol li raggiunse. Aveva fatto di corsa tutta la strada, dall’incrociatore spaziale. Era trafelato, senza respiro e aveva gli occhi sbarrati.
Gridò ad Arnol: «Un messaggio sul televisore, dalla squadra di navi spaziali del Controllo! Dicono che stanno avvicinandosi alla Terra, e ordinano di cessare immediatamente ogni operazione!»
20
Appuntamento col destino
Kenniston capì che si stavano sbriciolando tutte le sue disperate speranze, e tutte le disperate speranze degli abitanti di Middletown. Si volse ai tecnici con gli occhi allucinati, e questi lo guardarono, con espressione incerta.
Come un’eco tremenda, gli tornavano in mente le parole di Varn Allan: “Non potete lottare contro la legge della Federazione!”
Ma Jon Arnol, infuriato nel vedere il sogno della sua vita minacciato così, proprio all’ultimo momento, si lanciò sul messaggero.
Lo afferrò per il colletto e urlò: «Hai pensato a usare il misuratore di distanza, quando hai captato il messaggio di quelle navi spaziali?»
«Sì» disse l’altro prontamente «il quadrante indicava...»
«All’inferno il quadrante!» urlò Arnol. «A che distanza si trovavano le navi spaziali dalla Terra?»
«Credo che siano a tre o quattro ore di viaggio, se vengono a tutta velocità.»
«Puoi stare sicuro che verranno a tutta velocità» ribatté Arnol, sempre infuriato. Aveva il viso tutto sudato, i denti stretti, i nervi tesi, mentre si rivolgeva ai suoi uomini: «Ce la facciamo?»
«I comandi sono a posto» rispose uno dei tecnici. «Ci vorrà ancora un’ora o poco più per finire il resto.»
Kenniston riacquistò un poco di speranza, quando udì il piccolo margine di tempo che potevano ancora avere.
«Possiamo farcela di sicuro, Arnol!» gridò. «Dirò che sgombrino la città, immediatamente!»
Il sindaco Garris non era lontano. Con gli occhi pieni di terrore e pallido come un morto, aveva assistito sino ad allora ai preparativi attorno al grande pozzo.
Kenniston gli si avvicinò con un balzo.
«Fate uscire immediatamente la popolazione!» gli gridò. «Fatela salire sulle colline. Solo gli ammalati e i vecchi useranno le automobili... gli altri debbono camminare. Non possiamo correre il rischio di un ingorgo di traffico!»
«Sì!» balbettò il sindaco. «Sì! Subito!» Ma, dopo aver dato quella pronta risposta, il sindaco afferrò il braccio di Kenniston e, volgendosi a guardare la forma ovoidale della potente bomba energetica, domandò, a voce bassa, come se avesse paura di dimostrare ancor più apertamente il terrore che gli si leggeva in viso: «È molto grave il pericolo, Kenniston?»
Kenniston lo scosse, per rassicurarlo.
«Non preoccupatevi!» disse. «Andate subito, e fate uscire tutta la popolazione dalla città!»
Avrebbe desiderato di poter essere sicuro egli stesso.
I minuti che seguirono furono un vero incubo. Lavorando così, sotto pressione, lottando contro il tempo che passava inesorabile, sembrava che tutto cospirasse contro di loro. I metalli, i meccanismi, persino gli attrezzi, sembrava volessero tradirli.
Infine, la mole scura della bomba scivolò lentamente al suo posto, nell’incastellatura, al disopra del pozzo. Gli ultimi contatti vennero innestati, e tutto fu pronto.
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