Il sindaco si volse ai due venuti dalle stelle. «Vedete? La mia popolazione non vuole nemmeno ascoltare la vostra proposta!»
La donna apparve sbalordita.
«Ma nessuno sfida così i Governatori! Essi sono il corpo esecutivo di tutta la Federazione delle Stelle.»
La Federazione delle Stelle! V’era in questo nome un accento di lontana minaccia. Kenniston capì ancora una volta l’incomprensibile, vertiginosa vastità di quella civiltà dei cieli, di cui quella donna e quell’uomo erano i rappresentanti. Esasperato, disse: «Ma non riuscite a capire che, per questa gente, le stelle non sono che punti di luce nel cielo? Non riuscite a capire che soli e mondi e Governatori non hanno per loro alcun significato?»
Norden Lund colse quel momento per intervenire. Con voce suadente, disse a Varn Allan: «Non credete che, davanti a un ostacolo di questo genere, dovremmo consultare il Governo Centrale?»
Ella gli rivolse uno sguardo imperioso.
«Vi piacerebbe che io ammettessi così la mia incapacità a risolvere da sola la situazione, è vero? No! Riuscirò a mettere le cose a posto, e quando avrò finito me la vedrò personalmente con Gorr Holl, per aver fatto precipitare gli eventi in questo modo.»
Si rivolse poi nuovamente a Kenniston: «Il vostro popolo deve comprendere che la nostra decisione non è crudele. Spiegate loro che cosa sarebbe la vita su questo pianeta morto... una vita isolata, precaria, sempre più dura e pericolosa, senza nessuna prospettiva all’infuori della morte per attrito e per disgregazione. Capiranno allora che ciò che mi chiedono è di abbandonarli a un ben funesto destino.»
«Può darsi» ammise Kenniston «ma non ci farei assegnamento, se fossi in voi. Non ci conoscete ancora. Come popolo, non siamo pusillanimi.»
Parlava ora con maggiore ostilità, perché capiva, suo malgrado, che c’era della verità nelle parole di Varn Allan, una verità che non voleva riconoscere.
Ella lo guardò negli occhi, come se lo misurasse e con lui misurasse in un giudizio solo tutta la popolazione di Middletown. Poi disse tranquillamente: «Ricordatevi bene che un decreto formale approvato dal Comitato dei Governatori è una legge che dev’essere rispettata ed eseguita. L’evacuazione è stata ordinata e sarà posta in esecuzione.»
Fece un cenno a Lund, che scosse le spalle e la seguì. Scesero i gradini e attraversarono la piazza. La folla, sussurrando, allarmata e confusa, ma non ancora ostile, li lasciò passare.
Kenniston si volse a Hubble.
«Che dobbiamo fare?» domandò.
«Non lo so. Ma c’è una cosa che non dobbiamo fare, ed è il ricorso alla violenza. Sarebbe fatale. Dobbiamo calmare la popolazione prima che arrivi il corpo di evacuazione e la situazione precipiti.»
Kenniston fece del suo meglio, nel corso della giornata. Ripeté e spiegò le parole di Varn Allan fino alla nausea, ma nessuno lo volle ascoltare. La città funzionava, avevano la luce e l’acqua, non erano soli nell’universo, e la vita ora poteva procedere normalmente. Con l’irreprimibile ottimismo della razza umana, erano convinti che avrebbero potuto rendere il domani anche migliore. E non volevano assolutamente lasciare la Terra. Questo era come chiedere loro di lasciare il loro stesso corpo.
Lo choc che avevano ricevuto quand’erano stati sbalzati via dalla loro epoca e dal loro modo normale di vita era già stato abbastanza duro. Era uno choc che avrebbe potuto sopraffarli completamente. Kenniston lo sapeva, e sapeva anche che, in un certo modo, quel colpo era stato attutito. Per un po’ erano persino rimasti nella loro vecchia città, e la loro vecchia città era ancora là, oltre le colline, come un’ancora per i loro ricordi. Si poteva dire che avessero portato con sé parte della loro stessa epoca, poiché la vita nella nuova città era stata adattata, per quanto possibile, alla vita della vecchia Middletown. Si erano nuovamente adattati, si erano ricostruiti la loro esistenza familiare. Era stato uno sforzo, ma vi erano riusciti. Non potevano ora, d’improvviso, gettare tutto e ricominciare di nuovo, in qualche mondo completamente estraneo alla loro esperienza.
Kenniston comprendeva perfettamente che non era solo un attaccamento atavico alla Terra che li aveva nutriti, a far loro respingere così fieramente l’idea di lasciarla. Era anche l’orrore fisico e istintivo di entrare in una nave spaziale del tutto sconosciuta e di lanciarsi al di là dei cieli, dove...? Nell’ignoto! Nella notte e nel nulla, tra gli abissi imperscrutabili che non avevano fine, lasciandosi definitivamente alle spalle la loro Terra, la Terra comprensibile, solida, protettiva, e perduta per sempre! Era questo lo stato d’animo della popolazione. E anche la sua mente rifuggiva dal prospettarsi un’avventura simile. Perché quella donna non poteva capire? Perché non poteva capire che un popolo per il quale l’automobile era un’invenzione ancora recente, non era psicologicamente capace di avventurarsi nello spazio?
L’astronave era sempre ferma laggiù, nella pianura, e per tutto il pomeriggio e per tutta la sera la popolazione si aggirò inquieta intorno alla parete vitrea della cupola per guardarla, discutendo irosamente in piccoli gruppi. Le strade erano piene di mormorii, di voci, di movimento. Una grossa folla si addensava nella piazza e un distaccamento della Guardia Nazionale, in pieno assetto di guerra, si mise di guardia davanti alla porta della città. Stanco, oppresso, tormentato dall’ansia, Kenniston andò a trovare Carol.
Ella sapeva tutto, naturalmente. Tutti lo sapevano, a Nuova Middletown. La fanciulla lo accolse con l’espressione cupa e amara che le affiorava sempre più di frequente sul viso, da quel giorno di giugno in cui il loro mondo era finito, e disse: «Ma non possono fare una cosa del genere, ti pare? Non possono costringerci ad andar via!»
«Credono che sia la cosa migliore» rispose Kenniston. «Occorre far loro capire che non è così.»
Ella cominciò a ridere, con un riso per niente allegro.
«È una cosa senza fine» disse. «Prima abbiamo dovuto lasciare Middletown. Ora dobbiamo lasciare la Terra. Perché non siamo rimasti nelle nostre case e non siamo morti là, se dovevamo morire, come esseri umani? È stata una follia, sin dal principio... questa città, e ora...»
Smise di ridere, lo guardò, e aggiunse, calma: «Non voglio andarmene, Ken!»
«Non sei la sola, a pensarla così» le disse Kenniston. «Dobbiamo convincerli di questo.» L’irrequietudine lo riprese. Si alzò e suggerì: «Facciamo una passeggiata. Ci sentiremo meglio tutti e due.»
Uscirono insieme. Le luci erano accese, tutte quelle luci che avevano salutato con tanta gioia. Camminarono, parlando poco, oppressi dai loro pensieri. Kenniston era conscio nuovamente della barriera che sembrava alzarsi fra di loro, anche quando non c’erano motivi apparenti. Il loro silenzio non era il silenzio della comprensione, ma il silenzio di due esseri che potevano ormai comunicare solo con le parole.
Si avvicinarono a quella parte della cupola dalla quale era visibile, di lontano, la nave spaziale. L’inquietudine, nella città, era aumentata fino al parossismo. Una grossa folla stazionava nelle vicinanze della porta. Nessuno si avvicinava a essa. Attraverso la parete curva e trasparente della cupola, la forma illuminata del Thanis non era che una macchia scintillante e deformata. Carol rabbrividì e volse il capo.
«Non voglio guardarla» affermò. «Torniamo indietro.»
«Aspetta!» la trattenne Kenniston. «C’è Hubble.»
Hubble gli si avvicinò, soffocando una imprecazione.
«Ti ho cercato per tutta la città» disse. «Ken, quel pazzo esaltato di Garris ha perso completamente la testa, e sta spingendo tutta la popolazione a combattere. Devi venire con me! Bisogna cercare di calmarlo!»
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