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Bob Shaw: Il terzo occhio della mente

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Bob Shaw Il terzo occhio della mente

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Fu mentre si versava il caffè della prima colazione che John Redpath s’accorse qualcosa di “strano”, di qualcosa “che non andava”, pur non riuscendo a capire che cosa fosse… Restò un momento a guardarsi intorno, poi tese l’orecchio per sentire se, tra i rumori familiari del mattino presto, nello stabile in cui abitava, ne mancasse qualcuno, ovvero ce ne fossero degli insoliti… Questo tradizionale (e insuperato) modo di cominciare una storia di fs, ben pochi oggi possono permetterselo. Bisogna infatti che un romanzo possa competere con i classici, per non deludere le aspettative suscitate nel lettore da un inizio di questo tipo. Ma per Bob Shaw, autore di “Quando i Neutri emergono dalla Terra”, la difficoltà non esiste: ogni suo nuovo romanzo, comunque cominci, s’impone immediatamente come un classico.

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Nevison uscì in un sorriso estremamente gentile, per fargli capire che aveva detto qualcosa di eccezionalmente stupido. — Allora vorresti raccontarmi che quella creatura uscita da un film dell’orrore se ne stava davanti alla porta di casa tua. In carne e ossa, anche se sarebbe meglio dire in sangue e ossa.

— Non volevo dire una cosa del genere — rispose Redpath, e si chiese cosa volesse dire.

— Certo, scusa. Hai aperto la porta, hai visto che in corridoio non c’era niente di strano, per cui saprai benissimo che deve per forza trattarsi di un fenomeno soggettivo. Hai controllato che non ci fosse niente, no?

— Sì.

— Eccoci al punto, John. E la prova definitiva.

Redpath annuì. — La prova che sto impazzendo.

— Scusa se te lo dico, ma mi sembra che le tue idee sulla pazzia derivino direttamente da Charlotte Brontë e da Edgar Allan Poe, e questi due signori non erano psichiatri di chiara fama. — Nevison schioccò le labbra. Una bella frase, una frase di cui compiacersi, da mandare a memoria per ripeterla in occasioni future.

— Di’ un po’ quello che vuoi. — Redpath stava perdendo la calma. — Io so solo che mi sono spaventato a morte, che cose del genere non mi vanno a genio, e che probabilmente sono solo conseguenze dei nostri esperimenti.

— Lo penso anch’io — disse Nevison. Imprevedibile come sempre, tentava un’altra tattica. — Devi ammettere, John, che da quando abbiamo cominciato a somministrarti il Composto Centottantatré le tue doti telepatiche, che all’inizio erano solo latenti, si sono sviluppate in maniera enorme. Certo, non conosciamo ancora le tecniche per controllare queste doti, però tu diventi sempre più cosciente dei tuoi mezzi, non è vero? La settimana scorsa mi raccontavi che la mattina, quando ti svegli, “senti” cosa succede negli altri appartamenti del condominio. Giusto?

— Non vedo cosa c’entri con…

— Voglio solo dirti che per noi si tratta di una faccenda del tutto nuova. A quanto sembra, cominciamo a capire che i contatti mente-a-mente non si verificano sempre a livello cosciente… E tutti noi abbiamo i nostri mostri sepolti in fondo alla coscienza, John. Tu non hai mai incubi?

— Qualche volta. — Redpath si sentiva in balìa di Nevison.

— Li ho anch’io. Dobbiamo accettarli, e immagino che basti un po’ di sforzo per accettare eventuali incubi diurni.

— Dobbiamo? Cioè io li devo accettare?

— Tu sei il punto focale dell’esperimento, John. — Nevison si alzò, fece il giro della scrivania e si sedette sull’orlo, di fronte a Redpath. La manovra aveva lo scopo di creare un’atmosfera di amicizia serena, informale. — Senti, capisco benissimo che un’esperienza del genere ti abbia scosso, però non è giusto che tu prenda una decisione sul tuo futuro mentre sei ancora sconvolto. Non è giusto nei nostri confronti. Per oggi salta i test. Scrivi oppure detta un rapporto completo su quello che ti è successo stamattina, e fa’ conto che si tratti di dati sperimentali. Non dovresti metterci molto. Poi ti lascio libero per tutto il giorno. Fai quello che vuoi, pensaci. Domattina ne riparliamo. Che ne dici?

— D’accordo. — Redpath, riluttante, si alzò.

“Scriverò le mie dimissioni. Così sarà tutto a posto. Senza stare a discutere. E non mi fregheranno più con tutte le loro moine, non cancelleranno le mie parole.”

Se ne andò senza dire altro. Attraversò un corridoio, raggiunse lo stanzone sul retro dell’edificio che nessuno usava come ufficio fisso, e che serviva da base operativa per tutti coloro che non avevano abbastanza autorità da meritarsi un ufficio tutto loro. Su sei tavoli, quel mattino uno solo era occupato: da Terry Malan, laureando in psicologia che avrebbe dovuto lavorare alla tesi, ma che in realtà passava gran parte del tempo a riparare pezzi di motocicletta. Davanti a sé aveva una dinamo a pezzi, e la fissava con espressione torva.

Redpath gli passò accanto silenziosamente, sedette al suo tavolo e prese una penna. Decise che dieci minuti erano più che sufficienti per un rapporto a Nevison, dopo di che si sarebbe messo in ferie per quel giorno; ma si accorse subito che gli era difficile concentrarsi.

“Bolle di sangue che si gonfiano sotto le narici…”

“In un rapporto si parla di cose del genere? È attenzione ai particolari, o curiosità morbosa? Do prova di mentalità scientifica o di follia? Quanti uomini ha Leila? E a che ritmo li vede? Dove riuscirò a trovare un altro lavoro? Perché continua a guardarmi quel mostriciattolo di Malan? Non lo vedo, però so che mi sta guardando. Ogni volta che alza gli occhi e mi fissa la nuca è come finire sotto la luce di un faro. Devo mettere anche questo nel rapporto?”

Dopo un’ora di tentativi sporadici, Redpath aveva riempito una pagina. La chiuse in una busta e ci scrisse sopra: “Confidenziale — All’attenzione del dottor Nevison” e la sistemò al centro della scrivania, sotto il fermacarte di ardesia verde. Si stava comportando come se avesse intenzione di non tornare mai più. Dal cassetto centrale della scrivania prese le sue poche cose personali (francobolli, la scorta d’emergenza di fenobarbitone, il tagliaunghie) e se le mise in tasca. Quando si alzò, scoprì che Malan lo stava fissando intensamente. Redpath gli strizzò l’occhio, abbracciò un’immaginaria compagna di danza e arrivò alla porta mimando un tango alla George Raft. Non disse niente.

Sul pianerottolo si fermò un attimo, la mano sulla fronte, improvvisamente spaventato. Gli venne in mente che era follia lasciare l’esperimento per un solo incidente che forse non si sarebbe più ripetuto; una follia diversa da quella di cui aveva parlato Nevison, una follia economica e sociale senza rimedio. Circolavano un sacco di battute su come fosse facile ottenere soldi dall’assistenza sociale; ma se le sue esperienze passate avevano qualche valore, probabilmente l’impiegato gli avrebbe spiegato, con grande pazienza, che se il suo cognome cominciava per R e se aveva lo stesso numero di dita su entrambe le mani non potevano pagargli niente fino al prossimo transito di Mercurio. E poi c’era il pericolo di tagliare i ponti con Leila, l’ultima cosa al mondo che desiderasse.

Si passò una mano tra i capelli, tolse qualche granello di polvere dal giubbotto di pelle scamosciata e scese le scale, in cerca di Leila. Gli si stendeva davanti il pavimento del corridoio, una scacchiera di mattonelle verde pallido e crema su cui si muovevano le ombre proiettate dalle foglie all’esterno. E all’improvviso il corridoio s’inondò di sangue.

Non era lo stesso sangue rosso acceso, ben ossigenato, che aveva visto sull’apparizione davanti alla porta di casa sua. Era sangue vecchio: marrone, in via di coagulazione, traversato da venature nere in certi punti, e in altri pieno di grandi grumi simili a lumache. I grumi avevano lo stesso colore della carne cruda. E, come se il pavimento si fosse improvvisamente inclinato, sembrava che quell’orribile poltiglia organica avanzasse verso di lui…

— Ah, no — sussurrò. Con una mano si aggrappò alla ringhiera e con l’altra si coprì gli occhi. Restò immobile per un momento, chiamando a raccolta tutte le sue forze, e quando riaprì gli occhi il pavimento del corridoio era di nuovo normale. Le mattonelle erano perfettamente pulite, come nuove, come appena lucidate dalle cameriere dell’era vittoriana che un tempo lavoravano lì. Il resto del mondo pareva in ordine. In uno degli uffici vicini, una macchina per scrivere cominciò a ticchettare, monotona.

Redpath completò la discesa della scala e si avviò pensoso verso il fondo dell’edificio. Domande urgenti si agitavano nel suo cervello. Gli avevano detto che il Composto Centottantatré era un derivato innocuo dell’encefalina, modificata in modo da poter scegliere con precisione estrema le cellule cerebrali su cui doveva agire… Ma cosa significava? Per quanto tempo sarebbe durato l’effetto? E chi gli garantiva che Nevison, Magill e gli altri sapessero di cosa stavano parlando? Dopo tutto, il termine stesso “esperimento” significava che tiravano a indovinare, che provavano cose diverse, nella speranza che la cavia non facesse qualcosa d’irritante come prendersi un tumore, o impazzire, o morire senza preavviso.

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