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Bob Shaw: Il terzo occhio della mente

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Bob Shaw Il terzo occhio della mente

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Fu mentre si versava il caffè della prima colazione che John Redpath s’accorse qualcosa di “strano”, di qualcosa “che non andava”, pur non riuscendo a capire che cosa fosse… Restò un momento a guardarsi intorno, poi tese l’orecchio per sentire se, tra i rumori familiari del mattino presto, nello stabile in cui abitava, ne mancasse qualcuno, ovvero ce ne fossero degli insoliti… Questo tradizionale (e insuperato) modo di cominciare una storia di fs, ben pochi oggi possono permetterselo. Bisogna infatti che un romanzo possa competere con i classici, per non deludere le aspettative suscitate nel lettore da un inizio di questo tipo. Ma per Bob Shaw, autore di “Quando i Neutri emergono dalla Terra”, la difficoltà non esiste: ogni suo nuovo romanzo, comunque cominci, s’impone immediatamente come un classico.

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— Ma non saranno loro a prendere in giro me? — mormorò Redpath, e ricominciò a pedalare. Restò nel flusso del traffico diretto in centro per qualche centinaio di metri, poi svoltò a sinistra, in un quartiere residenziale. Adesso si trovava in una via più tranquilla, che l’avrebbe condotto quasi direttamente all’Istituto Jeavons. In genere, il fruscio delle ruote sull’asfalto e il ritmo costante delle pedalate lo aiutavano a pensare. Cercò di ripetersi mentalmente il discorso che avrebbe fatto a Henry Nevison per comunicargli che si licenziava, ma il suo cervello si spostava di continuo sull’altra fonte di complicazioni che gli stava avvelenando l’esistenza.

Leila Mostyn era laureata in matematica. Da sei mesi stava facendo studi di statistica nel reparto ricerche, dove Redpath passava quasi tutta la giornata. L’aveva conosciuto, era stata informata della sua professione, e per qualche settimana lo aveva trattato con una gentilezza impersonale, come un ricercatore di cancerologia estremamente corretto nei confronti di un animale da laboratorio destinato alla dissezione. Redpath era rimasto conquistato da quell’aria di distacco sessuale, da quelle labbra pallide, dal camice bianco, dai vestiti severi, dall’atteggiamento freddo.

Aveva deciso di corteggiarla, sfruttando tutte le risorse dell’immaginazione e dell’intelletto. Per un mese avevano trascorso assieme, di tanto in tanto, la notte; dopo di che, lui era piombato in piena atmosfera romantica. Sapeva benissimo di essere malato e di non avere prospettive economiche, per cui non le aveva chiesto di sposarlo; però sperava di arrivare poco per volta a una relazione stabile, anche perché il lato sensuale della personalità di Leila diventava sempre più forte. Era stato un bel periodo. Poi aveva scoperto che lei non era un tipo morigerato; era solo discreta, e molto indipendente. Se passava una sola notte alla settimana con lui era perché spesso preferiva restare sola; e ogni tanto si sentiva libera di scegliere un partner in una cerchia di amicizie maschili della cui consistenza Redpath aveva idee molto approssimative.

Si era sentito ferito, offeso, truffato dal suo stesso egocentrismo ingenuo. Aveva finito con l’accettare la situazione, scoprendovi addirittura dei vantaggi, ma si trattava di un equilibrio instabile. Capiva fin troppo bene che il minimo tentativo di monopolizzare Leila avrebbe significato la fine della loro relazione; eppure una volta al giorno, come minimo, sentiva l’impulso suicida di esprimere la propria gelosia, di rimproverarla perché non era innamorata quanto lui, di imporre regole al comportamento di un’altra persona. L’impulso si faceva più forte ogni volta che la sua routine quotidiana subiva variazioni: siccome Leila gli aveva negato senza motivo il paradiso terrestre, se succedeva qualcosa era colpa sua. Era giunto addirittura al punto di ritenerla responsabile delle variazioni del proprio stato di salute. Sapeva che era una reazione irrazionale, infantile, ma non riusciva a frenarsi.

“Basta, è troppo” pensò. “Devo trovare un posto più sicuro.”

Il reparto di psicofisiologia dell’Istituto Jeavons aveva sede in un edificio di arenaria marrone, costituito verso la metà del diciannovesimo secolo. Dava l’impressione di essere stato la casa di un ricco mercante. Una fila di pini e rododendri vecchissimi, che avevano raggiunto l’altezza di una casa di due piani, lo separavano dalla facciata di granito e dai chiostri in acciaio inossidabile dell’istituto. Anche nei giorni più caldi, in piena estate, l’ammasso di fronde lo rendeva umido e fresco come una caverna sotterranea; e sul prato c’erano diverse zone scure dove l’erba si rifiutava di crescere. Le pietre che lastricavano i sentieri erano sempre umide, per cui le impronte dei piedi e dei pneumatici resistevano per molto tempo, come immagini infrarosse. Scomparivano solo quando il sole asciugava le pietre.

Redpath arrivò sul sentiero in bicicletta, ridusse la velocità, scese e si avviò verso l’ingresso. Appoggiò la bicicletta a ridosso del balconcino in pietra a fianco degli scalini, ed entrò. Proprio in quel momento Leila Mostyn stava uscendo dal suo ufficio. Si fermò a salutarlo. Era una ragazza alta, coi capelli color biondo cenere tagliati corti, gli occhi grigi e due labbra deliziosamente piene che a Redpath ricordavano ogni possibile dote femminile, dall’intelligenza all’umorismo, dal calore alla generosità. Indossava una delle sue tenute più tipiche, almeno dal punto di vista di Redpath: una camicetta trasparente e un reggiseno a balconcino dalla linea decisamente provocante. Camicetta e reggiseno avrebbero messo fin troppo in mostra la sua figura, se lei non avesse aggiunto un’austera gonna di tweed e un camice bianco da laboratorio. Il camice in particolare era un suo tratto distintivo, perché nel lavoro di Leila non c’era niente che lo richiedesse, e in quel reparto nessun altro portava camici.

“Offri qualcosa, ma tieni sempre il grosso per te. Bisogna che la gente sappia cosa sta perdendo. Che ne direbbe se io non accettassi più ogni suo capriccio, ogni suo minimo desiderio? Se mi mettessi a usare la forza? Se la prendessi ogni volta che ne ho voglia, nel modo che preferisco, sia che a lei vada o…”

— John! — Leila gli rivolse un sorriso sorpreso. — Cosa stai sognando?

— Niente. — Redpath era sbalordito dalla visione di violenza selvaggia che gli aveva oscurato i pensieri. Rise imbarazzato.

— Stanotte hai dormito a sufficienza?

— Moltissimo — le rispose. Poi si lasciò vincere da un impulso di gelosia e aggiunse: — E tu?

Le tracce del sorriso di Leila svanirono all’istante. Fra loro c’era stata una comunicazione quasi telepatica. — Ho dormito sodo, grazie.

“È follia allo stato puro” pensò Redpath. “Sto commettendo un suicidio.” Sorrise e disse: — Che peccato. Che peccato.

Leila strinse i bordi del camice. — Cosa vuoi dire?

— Voi due che ve ne state lì tutta la notte, e non succede niente. Mi sembra uno spreco.

Leila lo esaminò freddamente. — Penso che consiglierò a Henry di darti un mese di ferie. — Cercò di andarsene, ma Redpath l’afferrò per il braccio. Il calore della sua pelle sotto il cotone bianco gli comunicò un senso di eccitazione e di frustrazione nello stesso tempo.

— A proposito, chi era? — le chiese, continuando a sorridere. — Lo conosco?

— Te l’ho già detto John. Devi cercare di superare le fobie sessuali dell’adolescenza.

— Ci sto provando. Ti ho chiesto con estrema franchezza con chi hai dormito stanotte, e se tu non hai fobie sessuali dovresti rispondermi con altrettanta franchezza. Giusto?

— Vai a farti friggere, John.

— Rifiuto e ostilità. — Redpath le lasciò andare il braccio, mimò l’atto di scrivere qualcosa su un blocco per appunti. Leila si voltò e si avviò verso le stanze sul fondo dell’edificio, lasciandosi dietro una densa scia di profumo. Redpath si sentiva trionfante. Di solito era Leila a usare la terminologia psicologica per le frecciate più pungenti, e le aveva dato molto fastidio che questa volta se ne fosse servito lui. Tutto questo, ovviamente, significava che in meno di un minuto Redpath aveva distrutto mesi di lavoro per costruire e conservare quella relazione; però si era accorto che era giunto il momento di operare grandi cambiamenti. Era una sensazione che avvertiva nell’aria. Se lasciava l’istituto, fra loro due si sarebbe inevitabilmente creata una frattura. Era meglio prendere l’iniziativa, liberarsi di lei quando ancora possedeva orgoglio e dignità, anziché aspettare che Leila gli concedesse sempre meno del proprio tempo, che lo privasse della sua virilità.

“Orgoglio? Dignità? Vuoi vedere che adesso monto pneumatici d’un bianco immacolato sulla bicicletta? Chi se n’è mai fregato di idiozie come l’orgoglio e la dignità?”

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