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Bob Shaw: Il terzo occhio della mente

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Bob Shaw Il terzo occhio della mente

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Fu mentre si versava il caffè della prima colazione che John Redpath s’accorse qualcosa di “strano”, di qualcosa “che non andava”, pur non riuscendo a capire che cosa fosse… Restò un momento a guardarsi intorno, poi tese l’orecchio per sentire se, tra i rumori familiari del mattino presto, nello stabile in cui abitava, ne mancasse qualcuno, ovvero ce ne fossero degli insoliti… Questo tradizionale (e insuperato) modo di cominciare una storia di fs, ben pochi oggi possono permetterselo. Bisogna infatti che un romanzo possa competere con i classici, per non deludere le aspettative suscitate nel lettore da un inizio di questo tipo. Ma per Bob Shaw, autore di “Quando i Neutri emergono dalla Terra”, la difficoltà non esiste: ogni suo nuovo romanzo, comunque cominci, s’impone immediatamente come un classico.

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Redpath smise di leggere. Si era accorto di qualcosa di strano. A quell’ora il corridoio davanti alla sua porta riceveva una splendida illuminazione naturale, e sotto la soglia correva una linea sottile di luce argentea. La linea di luce c’era, ma interrotta al centro, il che significava che c’era un oggetto appoggiato a ridosso della porta, oppure che in corridoio c’era qualcuno. La prima ipotesi era la più semplice (il postino abbandonava spesso i pacchi che non passavano sotto la porta), ma a Redpath sembrava che le estremità di quel segmento nero ondeggiassero lentamente, come succede con l’ombra di un essere vivente. D’altra parte non si sentiva nessun rumore, nessuno sembrava sul punto di suonare il campanello, e gli era difficile credere che qualcuno fosse tanto pazzo da mettersi di guardia davanti al suo appartamento. Doveva essere un pacco. Quelle leggere oscillazioni nella zona scura dovevano essere un gioco di luci: forse le foglie degli alberi davanti al condominio mosse dal vento, oppure il disco del sole oscurato dalle nubi.

Redpath si alzò, protese la mano verso il catenaccio; poi successe qualcosa dentro la sua testa. Avvertì un senso di turbamento, uno scivolare di prospettive, un evento psicologico. Senza rendersene conto si mise a guardare l’occhio magico installato nel mezzo della porta, un congegno assurdo che lui non aveva mai usato perché serviva solo alle vecchie signore sospettose e nevrotiche. Ma appoggiò l’occhio alla lente di vetro.

La faccia che apparve dall’altra parte non gli sembrò subito una faccia. Dapprima ebbe l’impressione di una cosa rossa e spugnosa, una specie di pomodoro gigantesco o di un frutto rosso sbucciato, di cui fosse visibile solo la polpa umida all’interno. Per un attimo emersero, da quella massa informe, tratti umani, e il cervello di Redpath si rifiutò di accettare il messaggio che stava ricevendo. Poi giunse l’istante della verità, terribile, mostruoso, abbagliante.

La faccia, l’intera testa erano state scorticate. Il risultato era un’allucinante scultura di sangue coagulato. Gli occhi e le palpebre, completi in ogni minimo dettaglio a eccezione delle ciglia, erano complesse sfere di sangue; la pelle viva delle labbra lasciava intravedere denti macchiati di sangue; il naso, reso pendulo dalla distorsione prodotta dalla lente dell’occhio magico, era di un rosso acceso, e sotto le narici si gonfiavano e sgonfiavano bolle rosse-blu, a indicare che il mostro era vivo…

Redpath si allontanò con un gemito dalla porta; poi entrò in azione un meccanismo di sopravvivenza che lo costrinse, contro la sua stessa volontà, a fare quello che doveva essere fatto. Redpath tornò indietro, abbassò la maniglia e spalancò la porta.

Il corridoio esterno era deserto.

Le gambe gli tremavano, ma uscì e si guardò attorno. A sinistra, il corridoio terminava poco dopo la porta dell’appartamento del signor Coates. A destra c’era la porta di Harv Middleton, e più oltre le scale che scendevano al pianterreno. Di fronte altre tre porte, tutte chiuse. Dalle finestre che si aprivano in corridoio vedeva alberi in fiore, parte di un parcheggio, il cortile sul retro di un negozio pieno di piedistalli per lampadari, e il retro di un gruppo di case e di garage. Il sole del mattino illuminava tutto con calma sublime. Il mondo sembrava allegro, tranquillo, normalissimo.

“È tutto normale tranne me” pensò Redpath. “Sto diventando pazzo al cento per cento.”

Tornò in soggiorno e si mise a tamburellare con le dita sul bracciolo di una poltrona. Doveva prendere una decisione importante riguardante il suo futuro. Il lavoro (il cosiddetto lavoro) che aveva all’istituto rappresentava la sua unica fonte di guadagno, ma se doveva attendersi altri fatti del genere non poteva tirare avanti per molto. D’altra parte lo pagavano poco. Quello che guadagnava non bastava per vivere, però era sufficiente a convincere quelli dell’assistenza sociale (che facevano addirittura pubblicità in televisione per spingere la gente ad accettare i loro soldi) che nel suo caso era inutile gettare denaro. Perdendo il lavoro si sarebbe iscritto all’assistenza sociale, gli avrebbero pagato gli arretrati d’affitto; e, soprattutto, sarebbe riuscito a condurre l’esistenza più normale in cui potesse sperare un uomo afflitto dal suo male.

Ebbe un pensiero improvviso: “Trovati una sistemazione meno cara. Un posto sicuro”.

“Ma dove potrei essere più al sicuro?”

“E al sicuro da cosa?”

— Ve l’avevo detto — disse Redpath, con aria indignata, ai mobili dell’appartamento. — Sto rimbecillendo. — Prese il giubbotto di pelle scamosciata, se l’infilò e uscì sbattendo la porta. Il corridoio era sempre deserto. Quando arrivò in strada, dal marciapiede si alzarono grandi nugoli di polvere e carte di caramella che si misero a danzargli attorno alle caviglie, come cagnolini affettuosi. Redpath fissò disgustato quella roba, e all’improvviso si accorse di detestare moltissimo il quartiere in cui viveva.

Bingham Terrace prendeva nome da un importante consigliere municipale di Calbridge, la più grande delle Quattro Città di Haverside. In un primo tempo quegli edifici così nuovi gli erano parsi attraenti. Aveva pensato che fosse divertente vivere in una strada di lusso, in un posto così ribollente di attività, e osservare le cose del mondo da un appartamento tanto accogliente, appollaiato sopra una fila di sei negozi. Per molto tempo aveva apprezzato il fatto che i negozi fossero così vicini e così comodi, e aveva fatto grandi sforzi per intrecciare rapporti amichevoli coi proprietari e coi commessi. Aveva a portata di mano una panetteria, un’edicola, una boutique, un caffè, una drogheria e una macelleria, tutte cose che sembravano scelte apposta per soddisfare le sue esigenze. Persino l’unica eccezione, la boutique per signora, si era trasformata in qualcosa di piacevole. Aveva un’insegna che diceva: “Il negozio della boutique”, e Redpath aveva fatto notare la tautologia alle ragazze che ci lavoravano. Dopo di che, si era costruito la fama di attore comico: una volta alla settimana infilava la testa in negozio e diceva di voler comprare una boutique.

Adesso, all’improvviso, era stanco di tutta quella modernità, del frastuono del traffico e del continuo sbattere delle portiere d’auto, della confusione creata dai ragazzi che ogni sera affollavano il caffè. Negli altri undici appartamenti, nessuno aveva accettato in pieno le sue offerte di amicizia; forse perché si era sparsa la voce che era epilettico e quindi avevano un po’ paura di lui, o più probabilmente perché si trattava di persone noiose e limitate che conducevano esistenze noiose e limitate. In ogni caso, non era mai riuscito, nemmeno una volta, a stabilire con loro un rapporto vero.

Fermo nel minuscolo corridoio che costituiva l’ingresso agli appartamenti dei piani più alti, Redpath guardò con una smorfia la boutique sulla destra, e il suo malumore divenne più intenso. Le due ragazze erano già arrivate, però stavano sistemando la merce sugli espositori e gli voltavano la schiena, il che rendeva impossibile uno scambio di cenni di saluto.

“Tanto non avranno nemmeno capito la battuta” pensò. “Problemi di comunicazione. Probabilmente ridono solo per cortesia. O per nervosismo. Dovevo spiegarglielo per bene la prima volta… State a sentire, in francese ‘boutique’ vuol dire negozio, per cui la vostra insegna dice che questo è un negozio del negozio, che voi vendete negozi. Chiaro? Afferrata la battuta?”

Redpath desiderò, in maniera intensissima, che Leila Mostyn avesse trascorso la notte con lui. Era convinto che non sarebbe successo niente se un’ora prima, quando si era svegliato, l’avesse trovata al suo fianco. E persino un’autorità come il dottor Hyall ammetteva che avrebbe tratto beneficio dal calore e dalla dolcezza di una relazione fissa. Raddrizzò le spalle e si incamminò in quella specie di tunnel che portava al parcheggio, sul retro dell’edificio. Dato che la legge gli proibiva di prendere la patente, Redpath godeva del privilegio di essere l’unica persona di Bingham Terrace (compreso il vecchio signor Coates) a non possedere l’auto. La sua bicicletta riposava, solitaria, sotto la tettoia in un angolo del parcheggio rettangolare. Sempre pensando a Leila, tolse la catena alla bicicletta e pedalò fino alla strada. Questa volta le ragazze della boutique lo videro, gli fecero un cenno di saluto. Redpath si fermò, alzò la mano a indicare l’insegna, e le ragazze si misero a ridere.

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