Lafferty intende la fantascienza per il suo pittoresco e il suo fantastico, e vuole ottenere effetti particolarissimi, interessanti e oltraggiosi: lo vediamo collegare parole comuni per costruire veri mostri verbali, e poi scopriamo che quei mostri hanno una loro vita. Le trame di Lafferty sono sempre perfettamente intenzionali, sono tenute sotto controllo, e sono perfino economiche, nonostante i suoi ritorni e le sue divagazioni (lo si nota alle successive riletture, che rivelano nuovi livelli e nuovi legami: non ci sono parti superflue, ciascuna parola si riscatta e si spiega nell’economia generale dell’opera), ma si ha l’impressione, di fronte alla singola scena, alla frase isolata, che la parola domini sulla narrazione, che le situazioni siano aperte, irrisolte, concluse falsamente e provvisoriamente solo per mezzo di un’affermazione paradossale. Ma il primo a credere a ciò che sta scrivendo è Lafferty stesso: una specie di credo quia absurdum , o meglio di «ci credo, visto che posso scriverlo»
I personaggi ambigui, obliqui e incostanti di Lafferty sono all’opposto di quelli della fantascienza tradizionale. Vengono alla mente sia certi romanzi di Delany e di Zelazny, sia, soprattutto, Cordwainer Smith. Tanto Lafferty quanto Smith sono giunti alla fantascienza nella maturità; entrambi, di fronte alla tecnologia, sono attratti dal tema della «riscoperta dell’umanità», e hanno lo stesso gusto per i giochi verbali, per i prodigi costruiti di sole parole, per rivivere a proprio modo la Storia, la leggenda, le opere letterarie altrui. Il Bateau ivre di Smith non è quello di Rimbaud, la sua Giovanna d’Arco non è quella storica, eppure in un certo senso lo sono.
Past Master è molte cose. Con le parole del protagonista, potrebbe essere «tutto per tutti» (e a volte le affermazioni che More fa su se stesso sembrano trasferibili al rapporto tra l’autore e quel suo alter ego che è il romanzo che sta scrivendo). È una riflessione di metafisica della Storia; è un’allegoria della società moderna; è un romanzo cattolico «conservatore»; è la ripresa di un’idea di Luciano che poneva Platone come unico abitante della sua Repubblica; è una difesa della forza dell’irrazionale contro la ragione esclusiva. Ed è anche una personalissima interpretazione della figura storica di Thomas More: il personaggio di Lafferty non è certo quel Thomas More, Cavaliere e prigioniero, che fu decapitato il 6 luglio 15 35 in base a una testimonianza falsa di Richard Rich, Procuratore generale di Enrico VIII… e in parte lo è.
Volendo definire questo romanzo, le parole migliori sono forse quelle che scriveva Alexei Panshin su un’altra opera di Lafferty, Fourth Mansions: «è un libro scatenato, ed è pieno di bugie prodigiose. Probabilmente lo rileggerò molte volte».
Riccardo Valla