Attraversarono l’ultima delle zone incolte, avanzando in un’agonia di stanchezza e perdendo sangue, sempre inseguiti dagli Assassini meccanici (come lo sarebbero stati, del resto, per tutto il breve tempo che restava loro da vivere). I loro corpi emettevano ancora quella cupa luminescenza che li intorpidiva. Erano vivi, ma non del tutto. Portavano dentro di sé dei marchi roventi, e per quanto coraggiosi fossero, non potevano più essere completamente se stessi, erano segnati.
— In verità, è stato uno spettacolo che valeva la pena di vedere, almeno una volta — disse Thomas. — C’è uno scheletro robusto sotto la carne dorata di questo mondo, un midollo d’acciaio, un sangue verde cupo. E qualcos’altro, il vuoto. Ah, quei volti vuoti e ghignanti, lassù nel cielo, erano tutti i volti del Nulla!
— Non «su nel cielo» — lo corresse Evita. — «Giù nel cielo». Su Astrobia, noi siamo tutti con la testa all’ingiù, e quando eravamo sul monte abbiamo visto l’irrimediabile abisso del pozzo sconfinato.
Attraversarono così l’ultima delle zone incolte, seguiti da vicino, cacciati. La mattina dopo, molto presto, entrarono in Cathead dalla parte posteriore.
Già da parecchi giorni Thomas si trovava a Cathead. Evita e Paul lo avevano lasciato: avrebbero lavorato per lui, avevano detto. Kingmaker gli inviò un messaggio, intimandogli di ritornare subito a Cosmopoli: era tempo, diceva, che Thomas cominciasse la sua campagna elettorale, o che almeno si lasciasse esibire al popolo.
Thomas gli rispose dicendo che, poiché era in lizza per il posto di medico, intendeva esaminare la natura del male, almeno superficialmente. Aveva già visitato la striscia di Cathead che confinava col Barrio, e alcuni tortuosi sobborghi. Ora, doveva continuare lo studio direttamente sul corpo gigantesco dell’infermo, sulla pazza malattia che stava corrodendo la meravigliosa e razionale Astrobia. Doveva trovare il bandolo della matassa lì, in quella mostruosa, desolante città.
Cathead era anche più grande di Cosmopoli. Aveva una popolazione di venti e più milioni di abitanti. E aveva raggiunto questa cifra in soli vent’anni. Era una manifestazione della miseria umana su scala talmente grande da essere unica nel suo genere. Vista panoramicamente dall’esterno, Cathead si trovava di fronte al Mar di Stoimenof: era collegata sia col Canale Principale, sia col Canale Intercittadino, aveva a sua volta cento canali navigabili, e si trovava al centro di tutte le linee di comunicazione dell’Astrobia civile come un ragno colossale. Aveva un potenziale industriale poderoso e rumoroso, e non faceva niente per nasconderlo, a differenza delle Città Dorate. Era una città rabbiosa, nata dalla povertà più abbietta, in cui tutti i generi di consumo erano prodotti a un costo molto superiore a quello delle Città Dorate.
Era una città chiassosa, al centro d’un immenso frastuono di traffici, ma non produceva niente che non fosse prodotto anche in qualche altra parte di Astrobia, niente che non fosse già presente in abbondanza altrove. Cathead trattava tutti i tipi di prodotti estratti dal mare, perché i mari di Astrobia erano dei vasti serbatoi chimici più ricchi di quelli terrestri. Ma anche le altre città trattavano i prodotti del mare, e senza i metodi ripugnanti usati a Cathead.
Le tecniche industriali impiegate a Cathead erano arcaiche, inumane ed estremamente costose, se si consideravano tra i costi le vite umane e gli anni impiegati. Ed era ironico pensare quanto gli stessi procedimenti fossero economici e puliti, nelle altre città. I primi stadi di alcuni dei procedimenti chimici usati in Cathead erano assolutamente mortali. In queste industrie la gente moriva come mosche, e anche se qualcuno fosse sopravvissuto, la sua vita sarebbe stata un continuo tormento. E nessuno aveva bisogno di Cathead.
Eppure, milioni di cittadini avevano lasciato la Città Dorate di Astrobia, avevano rifiutato ogni consiglio, avevano sfidato ogni minaccia, avevano scavalcato barriere (questo in anni più recenti) rischiando di essere uccisi, pur di abbandonare il piacere che veniva loro offerto nelle Città Dorate, rifugiarsi nella desolata Cathead, e lì soffrire e morire. E il mondo che si erano lasciati dietro le spalle era il più gradevole che mai uomini e macchine fossero stati capaci di edificare. Sembrava un ben misero affare. E questo appunto era l’enigma di Cathead e la malattia di Astrobia.
La gente si stabiliva a Cathead di sua spontanea volontà, e poteva rinunciarvi in qualsiasi momento. La gente che sputava il sangue nei lavori più terribili e nella miseria più nera avrebbe potuto diventare ricca quella sera stessa, se l’avesse desiderato. Ma era gente dura che aveva scelto la schiavitù, e altri seguivano continuamente il loro esempio. Uscivano con le loro barche per il raccolto marino, barche al cui confronto le vecchie chiatte per i rifiuti sembravano navi di lusso. Lavoravano venti ore al giorno, nell’implacabile fragore del mare, e in tre anni di questo lavoro moriva anche il più forte. Le Città Dorate avevano degli impianti automatici per i raccolti marini. I miserabili lavoratori di Cathead perdevano ben presto ogni capacità di coordinazione: balbettavano e inciampavano, ormai incapaci di parlare e di pensare logicamente. I minatori sputavano sangue a secchi e diventavano pazzi nel giro di diciotto mesi. Gli estrattori di ossipirite avevano il lavoro più terribile di tutti, e la loro morte era certa. E il fatto più curioso era l’assoluta mancanza di qualsiasi mercato per il prodotto: esso non aveva alcun uso, e il lavoro dei minatori non veniva pagato in alcun modo. Quegli uomini vendevano i propri figli, o li prendevano a prestito da altri per chiedere l’elemosina; si recavano a lavorare senza essere pagati, coscienti che ne sarebbero usciti storpiati o morti, o che la loro pelle si sarebbe tinta di blu e che sarebbero impazziti. Il prodotto si accumulava, inutile e velenoso, e i cadaveri, prodotto secondario della lavorazione, venivano ammucchiati lì accanto, raggiungendo quasi l’altezza dell’altro mucchio. Eppure, più di mezzo milione di uomini, donne e bambini lavoravano venti ore al giorno estraendo ossipirite, e scommettevano se sarebbe stata la fame o il veleno a ucciderli per primi.
Andando a vedere Cathead dall’interno, e nei suoi particolari, troviamo ad esempio il Castello del Topo. Era alto trentacinque piani e largo centocinquanta metri. Una volta era abitato da venticinquemila persone, ammucchiate l’una sull’altra. Ora c’erano forse ancora i resti di venticinquemila scheletri, e un miliardo di topi. Brulicavano sui muri esterni al punto che era impossibile ormai sapere quale fosse il vero colore di quell’edificio fatiscente. All’interno i topi formavano un tappeto vivente, spesso un metro, e ricoprivano ogni parete come una tappezzeria viva. Facevano delle sortite, fuori dal Castello del Topo, uccidendo e divorando migliaia di bambini, e perfino donne e uomini adulti, ricoprendoli di un manto divoratore e lasciando solo le ossa. Penetravano all’interno degli edifici di legno come un coltello nel burro. Divoravano il cemento come formaggio, indebolendo e facendo crollare interi edifici di muratura. Mangiavano vivi tremila abitanti di Cathead ogni giorno. C’erano più di cento enormi edifici completamente invasi dai topi, ma nessuno come il Castello del Topo.
E allora, perché mai così tanti corpi insepolti in Cathead? Perché tanta carne putrefatta che si gonfiava al calore del sole fin quasi a esplodere? Perché mai tanto fetore, al punto da abbattere al primo respiro tanta gente, anche gli sputasangue di Cathead, capaci di resistere a quasi tutto? Perché mai i topi non si occupavano dei cadaveri?
In verità, i topi lo facevano. I cadaveri rimasti, quelle poche centinaia che si vedevano passeggiando di primo mattino attraverso le viuzze di Cathead, erano i corpi troppo cattivi perfino per i topi. Ci sono veleni e veleni. C’è della carne morta talmente avvelenata che perfino i topi si rifiutano di toccarla.
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