— Lo so già, Pottscamp, lo so già chi comanda su Astrobia — disse Thomas. — Kingmaker comanda tutto lui. Così fa Proctor. E così fa anche Foreman: egli addirittura ordina al sole di alzarsi. E tu dirai lo stesso, immagino.
Ma Pottscamp scosse la testa: — Faremo una lunga conversazione un’altra volta, Thomas. Oggi, queste poche parole mi servono soltanto per presentarmi a te. Tu sei una persona; io sono una persona: gli altri non sono persone, o almeno, non sono persone reali. Se la tua presenza, qui, non avesse una certa importanza, non mi sarei affatto preoccupato di avvicinarmi a te per parlarti.
«Più tardi, Thomas, e in un luogo diverso, avremo occasione di parlare con tutta comodità. E con me ci saranno altri otto esseri che troverai molto interessanti. Quella che incontrerai una di queste sere è la vera Cerchia dei Maestri, anche se molti di noi appartengono a entrambe le Cerchie.
«Ti diremo quello che sta veramente accadendo. Ti faremo vedere il rovescio del ricamo. Quello che hai visto finora non è il vero volto di Astrobia, o per lo meno è assai incompleto. Il rovescio del ricamo è assai meno risplendente, ma anch’esso forma un’immagine reale, ed è molto più significativo del mondo che vedi ora. Tira fuori gli occhi, Thomas, e comincia a lustrarteli. Pulisciti le orecchie e adornale di foglie d’acanto. Tutti i tuoi sensi siano all’erta, per capire quanto ti sarà rivelato. Non hai mai avuto l’impressione, Thomas, di stare osservando ogni cosa dalla parte sbagliata? Ebbene, è proprio così.»
Thomas stava utilizzando un elaboratore da lui programmato per ottenere informazioni generali su Astrobia. Era una buona macchina, capace di rispondere ad ogni domanda, anche fuori delle formule tradizionali, fornendo perfino, se richiesta dall’operatore, delle opinioni personali.
— La Dorata Astrobia è un modello di urbanistica, un mondo di grandi città — stava dicendo l’elaboratore. — Se l’uomo è importante, la città è ancora più importante. Quando saremo diventati un’unica, gigantesca e perfetta città, allora la nostra evoluzione sarà completa. L’individuo, in quanto tale, deve scomparire, essere assorbito. La città è l’unica cosa che conta. Una città è molto di più della totalità della gente che l’abita, così come un organismo vivente è molto di più della somma delle cellule che lo costituiscono. Quando le cellule cominciano a considerarsi degli individui, allora si dice che il corpo è corroso dal cancro. Quando gli uomini considerano se stessi come individui, allora si manifesta il cancro delle città.
«Le grandi città di Astrobia, nell’attuale fase evolutiva verso la Città Unica, sono Cosmopoli, la capitale, Potter, Ruckle, Ciudad Fabela, Sykestown, Chezem City, Wendopolis, Metropol, Fittstown, Doggle, Culpepper, Big Gobey, Griggs e Wu Town. Fra tutte, Cosmopoli è la più perfetta, mentre Wu Town è la meno perfetta. E tuttavia c’è speranza anche per Wu Town. Tutto si salva nella grande sintesi.
«Sono tutte grandi città, poiché è stato calcolato molti secoli or sono che una città la quale abbia meno di venticinque milioni di abitanti non può reggersi economicamente. Ma al di là di questa cifra non c’è ragione di moltiplicare il numero delle città o dei loro abitanti. Il piccolo incremento annuo che viene concesso su Astrobia è compensato dall’emigrazione verso le colonie. Non vogliamo ammucchiare gli uomini gli uni sugli altri.»
— E Cathead? — domandò Thomas.
— Cathead è il cancro che dev’essere estirpato da questo mondo. Cancro, perché gli abitanti di Cathead considerano se stessi come individui e sono convinti della propria importanza come tali. Sì, Cathead è grande, è la più grande delle città, più grande perfino di Cosmopoli, la capitale. Ma non è tipica di Astrobia e non ci occuperemo di essa in questa sede.
«Non c’è povertà su Astrobia, dal momento che ognuno può avere tutto ciò che vuole. Non ci sono superstizioni, né credenze nell’Aldilà, perché al di là non ci può essere nulla. Ogni Aldilà sarà soltanto un’evoluzione del qui. Dal momento che Astrobia è la perfezione ultima, non ci può essere più nulla al di sopra di essa. Questa è l’intima essenza dell’Ideale di Astrobia. Non ci sono malattie su Astrobia, né fisiche né mentali. Non esistono apprensioni, paure o nervosismo. Ognuno può coltivare le arti e le scienze. I viaggi sul pianeta si compiono a mezzo di trasporti istantanei. Il tempo atmosferico e gli oceani sono sotto controllo. Non c’è alcun senso di colpa, poiché ci siamo liberati da ogni repressione. Non c’è odio né crudeltà. Non c’è alcuna possibilità di commettere peccati perché non c’è nulla contro cui peccare. Chiunque ha accesso a qualsiasi lusso o piacere. La giustizia è praticamente perfetta. I pochi tribunali rimasti servono a riparare le iniquità dovute ad equivoci, e anche questi sono in diminuzione.»
— C’è del buono… c’è del buono — disse Thomas, sfregandosi le mani. — Eppure ho l’impressione che qualcuno abbia già detto tutte queste cose, tanto tempo fa…
— Il piacere acquista nuove dimensioni, non ogni giorno, bensì ogni ora — continuò a recitare l’elaboratore. — Tutti vivono in un’estasi perenne. Siamo tutti un unico, immenso essere che copre tutto il mondo, e tocchiamo i vertici d’una completa intercomunicabilità. Giungiamo ad avere una mente sola e un solo spinto. Siamo… tutto, un cosmo vivente. Il popolo di Astrobia non sogna, la notte, perché i sogni sono un sintomo di disadattamento. Noi non possediamo un inconscio, come la gente di un tempo, poiché l’inconscio è un lato oscuro della mente e noi siamo soltanto luce. Per noi il futuro non conta. Il futuro è adesso. Non c’è il Paradiso in cui credevano i nostri progenitori: da molti anni noi viviamo nell’unico Aldilà che esiste. La morte non è importante. Attraverso la morte noi c’integriamo ancora più profondamente nella Città, tutto qui. Cessiamo di essere individui. In noi non si possono più distinguere umani e programmati, siamo un tutto unico. Ci stiamo avvicinando all’apice supremo, concretizzandoci in un unico popolo mondiale. Diventiamo un unico, gigantesco organismo, sempre più intenso e complesso, la Città.
— Ora ricordo chi ha già descritto tutto questo! — esclamò Thomas. — Io, sono stato! Chi altri si è fatto beffe di una cosa, e poi quella ha fruttificato? Ma mi piace molto di più, ora, di quanto mi piacesse allora. Suona molto meglio quando lo si sente dire da altre labbra, anche se si tratta di labbra di latta. Ma come, che io stia per cadere vittima del mio stesso incantesimo?
— Tutti noi diciamo le stesse cose, pensiamo le stesse cose, proviamo le stesse sensazioni e gli stessi piaceri — continuò l’elaboratore. — L’amore e l’odio spariscono, perché sono due aspetti dell’identica cosa, un unico mantello che la nostra razza ha indossato nella sua infanzia. Noi fronteggiamo a testa alta il nostro sole dorato, noi siamo il sole. Noi siamo tutto. Noi siamo tutti perfettamente fusi insieme; ci liberiamo del nostro essere e del nostro non-essere, poiché entrambi non sono che parti. Diventiamo la sfera estensibile e multidimensionale che non ha principio né fine, né esistenza. Noi penetriamo nell’uniforme, intensa quiete, dove la pace e la guerra si annullano reciprocamente e la coscienza sprofonda insieme con l’incoscienza nell’oblio. Siamo divorati dal Sacro Nulla, dal Grande Zero, il Punto Terminale dove tutti noi terminiamo.
— Piantala, piccolo istruttore meccanico, piantala! — esclamò ancora Thomas More. — Io l’ho inventato, io l’ho immaginato. Era tutto uno scherzo, te lo dico io, uno scherzo atroce. Era come non edificare un mondo.
— Ma non ho ancora finito — disse l’elaboratore. — La visione sale ancora più in alto. Be’, non esattamente più in alto, poiché raggiunta la sfera non c’è più né l’alto né il basso. Ma la sua intensità aumenta al…
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