Ora aveva attratto nella sua essenza tutto ciò che la razze umana aveva dato. Questa non era tragedia, ma compimento. I miliardi di effimere scintille di consapevolezza che erano state l’umanità non sarebbero più passate sciamando come lucciole sullo sfondo della notte. Ma non erano vissute del tutto invano. L’ultimo atto, sapeva Jan, doveva ancora venire. Poteva essere il giorno dopo, o secoli nel futuro. Nemmeno i Superni lo sapevano. Adesso lui comprendeva il loro scopo, ciò che essi avevano fatto in favore dell’umanità e perché essi indugiassero ancora sulla Terra. Verso di loro provava un sentimento di grande umiltà, oltre che una profonda ammirazione per la pazienza inesauribile che aveva permesso loro di attendere tutti quegli anni lontano dal loro pianeta. Jan non aveva mai capito bene la strana simbiosi che legava la Supermente e i suoi tributari… Secondo Rashaverak, non c’era mai stata una volta nella storia della sua razza che la Supermente non fosse stata presente, sebbene non si fosse servita di loro che quando essi avevano raggiunto una civiltà scientifica, potendo così muoversi per gli spazi cosmici a ogni suo volere.
«Ma perché ha bisogno di voi?» domandò Jan. «Con tutti i suoi fantastici poteri, potrebbe fare tutto ciò che vuole!»
«No» disse Rashaverak «essa pure ha i suoi limiti. In passato, sappiamo, ha tentato di agire direttamente sul cervello di altre razze, influenzando così il loro sviluppo culturale. Ma non c’è mai riuscita, perché l’abisso che la divide dagli altri è troppo grande. Noi siamo gli interpreti, i tutori. La vostra è la quinta razza alla cui apoteosi abbiamo assistito. E ogni volta impariamo qualche cosa di più.»
«È strano» disse Jan «che la Supermente abbia scelto voi per i suoi scopi, se è vero che non avete traccia di quei poteri paranormali che sono latenti nel genere umano. Come riesce a comunicare con voi e a rendervi noti i suoi desideri?»
«È una domanda alla quale non posso rispondere, così come non posso dirvi la ragione per cui devo tenervi nascosti i fatti. Un giorno, forse, conoscerete una parte della verità.»
Jan rifletté su questa risposta per qualche istante, ma sapeva che sarebbe stato inutile insistere nell’indagine.
«Ditemi un’altra cosa, allora, che non mi è stata mai spiegata» riprese.
«Quando la vostra razza venne per la prima volta sulla Terra, nella lontana preistoria della nostra civiltà, che cosa andò male? Perché eravate diventati per noi simbolo di male e di paura?»
Rashaverak sorrise. Non che vi riuscisse bene come Karellen, ma questa volta la sua fu un’imitazione ben riuscita.
«Nessuno mai l’ha indovinato, ma ora vedete bene perché non abbiamo mai potuto dirvelo. Soltanto un evento avrebbe potuto avere un simile effetto sull’umanità: e quell’evento non era all’alba della storia, ma alla sua fine ultima.»
«Che cosa volete dire?»
«Quando le nostre astronavi penetrarono nel vostro cielo, un secolo e mezzo fa, quello fu il primo incontro delle nostre due razze, sebbene vi avessimo studiato da lontano per secoli e millenni, naturalmente. Eppure voi ci avete temuti e riconosciuti, come sapevamo che avreste fatto. Non era precisamente un ricordo, il vostro; avevate già avuto la prova che il tempo è molto più complesso di quanto la vostra scienza abbia mai potuto prevedere. Vedete, quel ricordo non era del passato, ma del futuro: di quegli anni in cui la vostra razza avrebbe saputo che tutto era finito. Noi abbiamo fatto quello che abbiamo potuto, ma non era una conclusione facile da raggiungere. E poiché eravamo presenti, siamo stati identificati con la fine della vostra specie. Sì, anche se questa fine era lontana diecimila anni!
È stato come se un’eco invertita fosse rimbalzata lungo il circolo chiuso del tempo, dal futuro al passato. Chiamatela quindi, più che una reminiscenza, una premonizione.»
Era un concetto difficile da afferrare, e per un istante Jan lottò in silenzio contro la sua astrusità. Doveva esserci qualcosa di simile a una memoria della specie, memoria che in certo qual modo era indipendente dal tempo. Per essa, passato e avvenire erano una cosa sola; ecco perché migliaia di anni prima gli uomini avevano già avuto un’immagine deformata dei Superni, attraverso una nebbia di paura e di terrore.
«Ora capisco» disse l’ultimo uomo.
L’Ultimo Uomo! A Jan parve difficile pensare a se stesso in termine di ultimo individuo della sua specie. Quando si era lanciato nello spazio, aveva accettato la possibilità di un esilio eterno dalla razza umana, e la tristezza e lo sgomento non erano ancora scesi su di lui; a misura che gli anni fossero passati, il desiderio di vedere un altro essere umano avrebbe anche potuto sopraffarlo, ma per il momento la compagnia dei Superni gli impe-diva di sentire in pieno la sua solitudine. Esistevano ancora degli esseri umani sulla Terra, una decina di anni prima, ma non erano che superstiti degeneri, e Jan non aveva perduto niente non incontrandoli. Per motivi che i Superni non potevano spiegare, ma che Jan sospettava fossero soprattutto psicologici, non c’erano stati nuovi nati a sostituire quelli che erano scomparsi dalla scena. L’Homo Sapiens era estinto.
Quelli che non si erano uccisi avevano cercato l’oblio in attività ancora più febbrili, in sport violenti, micidiali, spesso indistinguibili da vere e proprie guerre su piccola scala. E a misura che la popolazione si riduceva, i superstiti già vecchi si erano congregati, esercito disfatto che stringeva le file per la sua ultima ritirata.
L’atto finale, prima che il sipario calasse per sempre, doveva essere stato illuminato da lampi di eroismo e di devozione, e oscurato da barbarie ed egoismi. Se si fosse concluso nella disperazione o nella rassegnazione, Jan non l’avrebbe saputo mai.
C’erano tante cose a cui pensare. La base dei Superni si trovava a un chilometro circa da una villa deserta, e Jan passò dei mesi ad arredarla con accessori presi dalla città più vicina, situata a una trentina di chilometri di distanza. C’era andato in volo con Rashaverak, la cui amicizia, Jan sospettava, non era del tutto disinteressata. Lo psicologo dei Superni teneva ancora a studiare gli ultimi esemplari di Homo Sapiens. La città doveva essere stata evacuata prima della fine, perché le case, e anche quasi tutti i servizi pubblici erano ancora in buono stato di funzionamento. Non ci sarebbe voluto molto a riattivare i generatori, e le strade sarebbero state ancora una volta sfolgoranti d’una illusione di vita. Jan si baloccò con l’idea, poi l’abbandonò, perché gli parve morbosa. Spesso se ne andava a fare lunghe passeggiate sulle colline, pensando a tutte le cose che erano successe nei pochi mesi in cui era rimasto assente dalla Terra. Non aveva mai pensato, nel salutare Sullivan, ottant’anni prima, che l’ultima generazione della specie umana stava già nascendo. Che giovane idiota era stato! Eppure non era affatto sicuro di essere pentito di ciò che aveva fatto: se fosse rimasto sulla Terra, sarebbe stato testimone di quegli anni conclusivi, su cui il tempo aveva già steso il suo velo. Invece, era saltato al disopra di loro, nel futuro, e aveva avuto le risposte a quesiti che nessun altro uomo era mai riuscito a risolvere. La sua curiosità era quasi soddisfatta, ma a volte si domandava che cosa aspettassero i Superni e che cosa sarebbe accaduto quando la loro pazienza sarebbe stata fi-nalmente ricompensata. Ma la maggior parte del suo tempo lo passava con la rassegnazione soddisfatta dell’uomo che è alla fine di una lunga vita attiva. Seduto alla tastiera, colmava l’aria con le melodie del suo amatissimo Bach. Forse ingannava se stesso, forse non era che un trucco misericordioso della mente, ma sembrava ora a Jan che questo fosse quanto aveva sempre sognato di fare. La sua segreta ambizione aveva finalmente ardito emergere nella luce piena della coscienza. Jan era sempre stato un buon pianista… e adesso era il migliore.
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