Arthur Clarke - Le Guide del Tramonto

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Per sei giorni le immense astronavi, silenziose e immobili, restarono sospese sulle metropoli della Terra. Poi vennero gli ordini, e ai terrestri non restò che obbedire. Ma per ani e anni nessuno potè vederli, gli Esseri venuti con le astronavi. Nessuno poté sapere chi erano. Per quale misteriosa ragione «Essi» non volevano essere conosciuti? Forse perchè (ma nessuno lo sospettò) non volevano essere «riconosciuti»? Un classico della fantascienza che è anche un classico del suspense.

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Karellen stava ritto, un po’ discosto dai suoi compagni, presso un grande autocarro carico di casse. Jan non si soffermò a chiedersi come avesse fatto a riconoscere il Supercontrollore, e non si stupì di trovarlo del tutto immutato. Si può dire che fosse la sola cosa che gli apparve come se l’era immaginata.

«Vi stavo aspettando» disse Karellen.

22

«I primi tempi» disse Karellen «potevamo andare fra loro senza pericolo. Ma non avevano più bisogno di noi: la nostra opera fu compiuta dopo che, radunatili tutti insieme, avevamo dato loro un continente. Guardate.»

La parete davanti a Jan scomparve, e ora lui guardava da un’altezza di qualche centinaio di metri su una regione amenamente boscosa. L’illusione era così perfetta che per qualche istante Jan dovette lottare contro il capogiro.

«Qui, è cinque anni dopo, quando ha avuto inizio la seconda fase.»

Delle figure si muovevano in basso, e l’obiettivo calò rapido su loro come un uccello da preda.

«Ciò che vedrete vi impressionerà» disse Karellen. «Ma non dimenticate che il vostro punto di vista non è più valido. Voi non state osservando dei ragazzi umani.»

Eppure questa fu l’impressione che si offrì alla mente di Jan, e non bastò tutta la logica di questo mondo a dissolverla. Sarebbero potuti essere dei selvaggi intenti a una complessa danza sacra. Erano nudi e sporchi, con ciocche di capelli ingrommati che scendevano a coprire gli occhi. Ce n’erano di tutte le età, dai cinque ai quindici anni, calcolò Jan, ma tutti si muovevano con la stessa velocità, la stessa precisione, la stessa indifferenza per il mondo circostante. Poi Jan vide le loro facce. Dovette inghiottire un grumo di saliva più pesante del piombo e fare uno sforzo per non volgere altrove la testa. Erano facce più vuote di quelle dei morti, perché anche un cadavere ha qualche ricordo, inciso dallo scalpello del Tempo sui lineamenti, che parla quando le labbra sono diventate mute. Non c’era più emozione o sentimento su quelle facce, di quanti possano esserci sul muso di un serpente o di un insetto. Gli stessi Superni erano infinitamente più umani.

«Voi state cercando qualcosa che non c’è più» disse Karellen. «Ricordatevelo, non hanno più personalità individuale delle cellule del vostro corpo. Ma collegati tra loro rappresentano qualcosa d’infinitamente più grande di voi.»

«Ma perché continuano a muoversi così?»

«Noi l’abbiamo chiamata la Lunga Danza» rispose Karellen. «Non dormono mai, capite, e questa è durata quasi un anno. Sono trecento milioni, che si muovono secondo un piano controllato su tutto un continente. Abbiamo analizzato questo piano senza posa, ma non significa niente, forse perché noi possiamo vederne soltanto la parte fisica… la piccola parte che è qui sulla Terra. Forse, quella che noi abbiamo chiamato la Supermente li sta ancora addestrando, li foggia in una sola unità prima di assorbirli nel suo essere.»

«Ma come hanno fatto a nutrirsi? E che accadeva se urtavano contro qualche ostacolo, come alberi, massi, o se c’era una distesa d’acqua?»

«L’acqua non rappresentava nessun pericolo: non potevano affogare. Se incontravano degli ostacoli e si facevano male, non se ne accorgevano. Quanto a nutrirsi… be’, c’erano tutti i frutti e la selvaggina che volevano. Ma ora si sono liberati di quella necessaria fonte di energia e hanno imparato ad attingere ad altre fonti.»

La scena tremolò improvvisamente, come se un’onda di calore vi fosse passata sopra. Quando il tremolio cessò, il movimento della Lunga Danza era cessato anch’esso.

«Guardate ancora» disse Karellen. «Sono passati altri tre anni.»

Le piccole figure, così abbandonate e patetiche per chi non avesse conosciuto la verità, stavano immobili nella foresta, nel sottobosco, nelle pianure. L’obiettivo della macchina da presa andava instancabilmente dall’una all’altra: già le loro facce si fondevano in un solo stampo, un’unica forma. Aveva visto una volta alcune fotografie ottenute con la sovrapposizione di dozzine di riproduzioni, un esperimento per ottenere una faccia «media». Il risultato era stato così vuoto, così privo d’ogni carattere come questo. Sembravano tutti addormentati o in stato catalettico. Avevano gli occhi serrati, e sembrava che non si rendessero conto di ciò che li circondava più di quanto ne fossero consci gli alberi sotto cui erano radunati. Jan si chiese quali pensieri passassero nell’intricato reticolo di cui le loro menti erano, ora, solo… ma era meglio dire «già»… una massa di fili pronti a essere tessuti nella trama di un immenso arazzo. Un arazzo che ricopriva innumerevoli mondi e razze e continuava a espandersi. L’evento si verificò con una rapidità che abbagliò la vista e stordì il cervello. Jan stava guardando una bellissima regione fertile, assolutamente normale: unica stranezza le innumerevoli figure immobili sparse, ma non a caso, in lungo e in largo. E l’istante dopo, tutti gli alberi e l’erba, tutte le creature viventi che avevano abitato quella terra, erano scomparsi, in un guizzo. Non restavano che i laghi placidi, i fiumi serpeggianti, le alture ondulate, spoglie ora del loro verde mantello… e le figure mute, indifferenti, che avevano operato la distruzione.

«Perché l’hanno fatto?» ansimò Jan.

«Forse la presenza di altre menti li ha disturbati… anche le menti embrionali di piante e animali. Secondo noi, un giorno potrebbero scoprire che anche il mondo materiale è altrettanto molesto. E allora nessuno può dire quello che potrebbe accadere. Ora voi capite perché ci siamo ritirati dopo aver compiuto il nostro dovere. Noi stiamo ancora cercando di studiarli, ma non entriamo più nelle loro terre e non vi mandiamo nemmeno i nostri strumenti. Tutto quello che osiamo fare è osservarli dallo spazio.»

«Tutto ciò è avvenuto molti anni fa» disse Jan. «Che cosa è successo in seguito?»

«Ben poco. Non si sono mai mossi in tutto questo tempo, e non si danno pensiero né del giorno né della notte, né dell’estate né dell’inverno. Sono ancora intenti a saggiare i loro poteri; dei fiumi hanno cambiato corso, per esempio, e ce n’è uno che risale verso la fonte. Ma non hanno fatto niente che sembri avere uno scopo.»

«E non si sono mai curati di voi?»

«Mai, sebbene ciò non sia affatto strano. L’entità di cui sono parte sa tutto di noi. Sembra che non le importi che noi si cerchi di studiarla. Quand’essa vorrà che noi si parta o avrà un nuovo compito per noi, altrove, renderà manifesto nel modo più chiaro il suo volere. Fino a quel momento, resteremo qui, affinché i nostri scienziati possano raccogliere il maggior numero possibile di elementi.»

Questa dunque, pensò Jan con una rassegnazione che superava ogni tristezza, era la fine dell’uomo. Una fine che nessun profeta aveva mai previsto… una fine che respingeva ogni ottimismo e insieme ogni pessimismo. E capì finalmente quanto fosse stato vano, in ultima analisi, il sogno che lo aveva attirato verso le stelle.

Perché la strada verso le stelle si biforcava, e né l’una né l’altra delle due direzioni portava a una mèta che tenesse conto delle speranze o dei timori dell’uomo.

Alla fine d’una delle due strade c’erano i Superni. Essi avevano conservato la loro individualità, i loro «io» indipendenti; possedevano coscienza di sé e il pronome «io» aveva un significato preciso nella loro lingua. Avevano emozioni e sentimenti, alcuni dei quali, almeno, erano comuni con i mortali. Ma erano in trappola, sopraffatti dall’inimmaginabile complessità di una galassia di centomila milioni di soli, e di un cosmo composto di centomila milioni di galassie.

E alla fine dell’altra strada? C’era la Supermente, che stava all’uomo come probabilmente l’uomo stava all’ameba. Potenzialmente infinita, im-mortale, da quanto tempo andava assorbendo una specie dopo l’altra, a misura che si espandeva tra le stelle? Aveva essa pure desideri, aspirazioni e mète che intravedeva appena e avrebbe anche potuto non raggiungere mai?

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