Arthur Clarke - Le Guide del Tramonto

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Per sei giorni le immense astronavi, silenziose e immobili, restarono sospese sulle metropoli della Terra. Poi vennero gli ordini, e ai terrestri non restò che obbedire. Ma per ani e anni nessuno potè vederli, gli Esseri venuti con le astronavi. Nessuno poté sapere chi erano. Per quale misteriosa ragione «Essi» non volevano essere conosciuti? Forse perchè (ma nessuno lo sospettò) non volevano essere «riconosciuti»? Un classico della fantascienza che è anche un classico del suspense.

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Può darsi, pensò Jan. Ottant’anni erano molti, e per quanto lui fosse ancora giovane, con la mente agile, e possedesse una grande capacità di adattamento, poteva trovare difficoltà a comprendere tutti i cambiamenti che dovevano essersi verificati. Ma di una cosa era sicuro: gli uomini avrebbero voluto sentire la sua storia e sapere che cosa aveva visto della civiltà dei Superni.

Lo avevano trattato bene, come del resto si era aspettato. Del viaggio verso Carena non aveva saputo niente: quando l’effetto dell’iniezione si era dissipato gradualmente e lui era tornato alla realtà, l’astronave era già entrata nel sistema dei Superni. Lui era strisciato fuori dal suo nascondiglio e si era accorto che la maschera dell’ossigeno non gli serviva. L’aria era densa e pesante, ma Jan poteva respirare senza difficoltà. Si era ritrovato entro la stiva enorme dell’astronave illuminata in rosso, fra innumerevoli casse e tutte le comuni parti di un carico che è logico aspettarsi di trovare a bordo di qualsiasi grossa nave mercantile degli spazi cosmici o del mare. Gli ci era voluta quasi un’ora per trovare la strada della sala di comando e rendere nota la sua presenza all’equipaggio. La loro mancanza di sorpresa lo aveva lasciato perplesso. Sapeva che i Superni dimostravano pochissimo i loro sentimenti, ma una reazione qualunque se l’era aspettata. Invece avevano continuato a fare quello che stavano facendo, osservando il grande schermo, costantemente solleciti alle innumerevoli manopole dei pannelli di comando. Ed era stato allora che aveva capito che si preparavano ad atterrare, perché, ogni tanto, l’immagine di un pianeta appariva in un lampo sullo schermo, più grande a ogni comparsa. Eppure non si avvertiva nessuna sensazione di movimento o cambiamento di velocità, e la gravità rimaneva assolutamente costante: un quinto circa di quella terrestre, aveva calcolato Jan. Le immense forze che muovevano l’astronave erano compensate con precisione ammirevole. E infine, all’unisono, i tre Superni si erano alzati dai loro sedili, e lui a-veva capito che il viaggio spaziale era concluso. Essi non avevano parlato né al passeggero né tra loro, e quando uno dei Superni gli aveva fatto cenno di seguirlo, Jan aveva capito che a quel capo della lunghissima linea che riforniva Karellen, non c’era nessuno che parlasse inglese. Essi lo avevano guardato con gravità mentre le porte enormi si aprivano davanti ai suoi occhi avidi. Quello era il momento supremo della sua vita: era il primo essere umano che vedeva un mondo illuminato da un altro sole. La luce vermiglia di NGS 549672 invase l’astronave, e davanti a lui apparve il mondo dei Superni. Che cosa si era aspettato? In realtà Jan non lo sapeva. Edifici immensi, metropoli con torri che si perdevano nelle nubi, macchine che superavano ogni immaginazione… tutto questo non l’avrebbe stupito. Invece vide una pianura anonima che si stendeva fino all’orizzonte incredibilmente e innaturalmente vicino, interrotta soltanto da altre tre astronavi immobili a qualche chilometro di distanza. Per un attimo Jan si sentì deluso, poi scosse le spalle rendendosi conto che in fondo avrebbe dovuto immaginare che uno spazioporto si trovasse in una zona deserta proprio come quella.

Faceva freddo, per quanto in modo sopportabile. La luce dell’enorme sole rosso basso sull’orizzonte non era un pericolo per gli occhi umani, ed era sufficiente a vedere, ma Jan si chiese fra quanto tempo avrebbe cominciato a desiderare i toni verdi e azzurri. Poi vide il gigantesco calice che saliva nel cielo simile a un immenso catino messo vicino al sole. Lo guardò a lungo prima di capire che il suo viaggio non era ancora finito. Era quello il mondo dei Superni. Questo dove si trovava doveva essere il suo satellite, la base dalla quale partivano le loro astronavi.

Lo avevano poi fatto salire su un’altra nave, non più grande di un comune aereo di linea terrestre. Con l’impressione di essere un nano, Jan si era arrampicato su uno dei grandi sedili, e aveva cercato di vedere dai finestrini qualcosa del pianeta al quale si stavano avvicinando. Il viaggio fu così breve che lui non ebbe il tempo di vedere molto del mondo che ingrandiva sotto i suoi occhi. Gli parve che i Superni ricorressero a un tipo di superpropulsione anche per navigare nelle vicinanze di casa, perché dopo pochi minuti già penetravano in una densa atmosfera fitta di nubi. Quando i portelli si spalancarono, uscirono tutti in una grande sala col soffitto a volta che scivolò a richiudersi in un attimo alle loro spalle cancellando ogni segno di porta. Passarono due giorni prima che Jan potesse lasciare quell’edificio. Era una merce inattesa, e loro non avevano un posto dove metterlo. Per peggiorare la situazione nessuno dei Superni capiva l’inglese, così era praticamente impossibile comunicare con loro. Jan si rese conto che mettersi in contatto con una razza extraterrestre non era semplice come spesso sembra nei romanzi di fantascienza. Farsi capire a segni risultò un fallimento, perché questo sistema è troppo legato a un tipo di gesti, di espressioni e di atteggiamenti, che non erano comuni alla razza umana e a quella dei Superni.

Jan pensò che sarebbe stato assai deprimente che gli unici Superni capaci di parlare la sua lingua fossero tutti sulla Terra. Purtroppo poteva soltanto aspettare e sperare. Certamente qualche loro scienziato, qualche esperto di razze straniere, si sarebbe fatto vivo per occuparsi di lui. Oppure lui era così poco importante che nessuno se ne sarebbe preoccupato?

Possibilità di uscire dalla costruzione non ce n’erano, dato che le grandi porte non possedevano congegno d’apertura visibile. Quando un Superno arrivava davanti alla porta, questa si apriva. Tutto qui. Jan aveva cercato di fare altrettanto agitando le braccia in alto con la speranza di interrompere un eventuale raggio che comandasse l’apertura, aveva tentato tutti i sistemi immaginabili, ma senza risultato. Un uomo dell’Età della pietra, sperduto in una città o in una casa moderna, si sarebbe sentito altrettanto impotente. Una volta aveva cercato di uscire seguendo un Superno, ma era stato cortesemente respinto indietro, e siccome non voleva assolutamente irritare i suoi ospiti, Jan non aveva insistito.

Vindarten arrivò prima che Jan cominciasse a disperarsi. Il Superno parlava l’inglese malissimo e troppo in fretta, ma migliorò con rapidità. In pochi giorni, furono in grado di conversare a loro agio di qualunque argomento che non richiedesse un vocabolario specializzato. Non appena Vindarten si assunse la sua tutela, Jan smise di preoccuparsi. Non ebbe nemmeno l’opportunità di fare ciò che desiderava, perché doveva passare quasi tutto il suo tempo in sedute con scienziati Superni desiderosi di fare oscuri esperimenti con strumenti complicatissimi. Jan odiava quelle macchine, e dopo un esperimento con una specie di congegno ipnotico ebbe un mal di capo lancinante, che durò parecchie ore. Lui aveva tutta la buona volontà di collaborare, ma non era sicuro che gli studiosi Superni conoscessero le sue limitazioni mentali e fisiche. Passò parecchio tempo prima che riuscisse a convincerli che gli era indispensabile dormire a intervalli regolari. Fra un esperimento e l’altro, aveva fuggevoli visioni della città, cosa che gli permise di capire quanto sarebbe stato difficile per lui aggirarvisi all’interno. Strade nel senso terrestre erano praticamente inesistenti, e non sembrava nemmeno che esistessero veicoli di superficie. Era il pianeta, quello, di creature che potevano volare e che non temevano la forza di gravità. Capitava di trovarsi senza preavviso sull’orlo di un precipizio di centinaia di metri, o di scoprire che l’unica via d’ingresso a una stanza era un’apertura sistemata in alto in una parete. Da mille particolari Jan cominciò a rendersi conto che la psicologia di una razza fornita di ali era fondamentalmente diversa da quella di creature legate al suolo. Era uno spettacolo bizzarro vedere i Superni librarsi come immensi uccelli fra le torri della loro città, le possenti ali remiganti a lenti battiti ondosi. Un problema scientifico si nascondeva sotto quello spettacolo. Perché quello era un pianeta di notevoli dimensioni, molto più grande della Terra, eppure la forza di gravità era inferiore a quella terrestre, e Jan non riusciva a capire perché l’atmosfera fosse così densa. Interrogò Vindarten in merito e venne a sapere, come aveva vagamente immaginato, che quello non era il pianeta d’origine dei Superni. Costoro si erano evoluti su un pianeta molto più piccolo, per poi giungere alla conquista di questo, dopo averne modificato non soltanto l’atmosfera ma la stessa forza di gravità. L’architettura dei Superni era funzionale fino allo squallore. Mancavano decorazioni, ornamenti, non c’era niente che non avesse uno scopo, anche se quello scopo esulava spesso dalla comprensione di Jan. Se un uomo del medioevo avesse potuto vedere quella città illuminata di rosso e gli esseri che l’abitavano, indubbiamente avrebbe creduto di essere finito all’inferno. Perfino Jan, nonostante tutta la sua curiosità e l’obiettivo distacco dello scienziato, spesso si trovava sulle soglie di un terrore irragionevole. La mancanza di un solo punto di riferimento familiare può essere causa di estremo sconvolgimento anche per la mente più lucida e razionale. E poi c’erano troppe cose che Jan non riusciva a capire e che Vindarten non poteva, o non voleva nemmeno tentare di spiegargli. Ad esempio, cos’erano quelle luci saettanti di forma mutevole che percorrevano l’aria con moto talmente rapido da far dubitare della loro esistenza? Potevano essere tanto creature terribili e sacre, quanto semplici e unicamente spettacolari, ma banali, effetti luminosi come le insegne al neon della antica Broadway. Jan intuiva, inoltre, che il mondo dei Superni era pieno di suoni che lui non poteva sentire. Qualche volta riusciva a captare complessi temi ritmici che si stendevano lungo lo spettro percettibile alle sue orecchie, per svanire oltre i limiti dell’udibile. Vindarten aveva l’aria di non capire che cosa intendesse Jan per «musica», quindi lui non riuscì mai a soddisfare la propria curiosità su questo problema. La città tuttavia non era così sterminata come si poteva dedurre in rapporto a una civiltà tanto spettacolare; era certo più piccola di quello che non fossero New York o Londra al culmine della loro prosperità. Secondo quanto diceva Vindarten, esistevano parecchie migliaia di città come quella, sparse sulla superficie del pianeta, ognuna destinata a una funzione specifica. Sulla Terra, il parallelo più pertinente era una città universitaria, se non che il grado di specializzazione, lì, era infinitamente più accentuato. Tutta quella città, scoprì Jan, era dedita allo studio delle culture d’altri mondi.

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