Arthur Clarke - Le Guide del Tramonto

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Per sei giorni le immense astronavi, silenziose e immobili, restarono sospese sulle metropoli della Terra. Poi vennero gli ordini, e ai terrestri non restò che obbedire. Ma per ani e anni nessuno potè vederli, gli Esseri venuti con le astronavi. Nessuno poté sapere chi erano. Per quale misteriosa ragione «Essi» non volevano essere conosciuti? Forse perchè (ma nessuno lo sospettò) non volevano essere «riconosciuti»? Un classico della fantascienza che è anche un classico del suspense.

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Ma tutto ciò non aveva importanza. I loro figli se ne andavano ed era co-sì che avevano deciso di andarsene. E in quel momento George ricordò, di colpo, quello che gli aveva tormentato la memoria. Molto tempo prima, non ricordava più dove, aveva visto un documentario vecchio di un secolo. Il documentario di un esodo simile. Doveva essere all’inizio della prima guerra mondiale, o forse della seconda. Vi erano lunghe file di treni, tutti affollati di bambini, che uscivano lentamente dalle stazioni delle grandi città minacciate dalla guerra, lasciando là i genitori che molti di quei bambini non avrebbero più rivisto. Alcuni piangevano, altri erano disorientati e trafficavano, confusi, con i loro bagagli. Ma i più sembravano guardare al domani come a una grande avventura da vivere.

Però l’analogia aveva qualcosa di stonato. La storia non si ripete mai. Quelli che stavano partendo adesso non erano più bambini. E questa volta non ci sarebbe stato ritorno. L’astronave era atterrata là dove le onde morivano, affondando profondamente nella sabbia inzuppata di acqua. In perfetto sincronismo, i grandi pannelli ricurvi si sollevarono e le passerelle scattarono verso la spiaggia come lingue metalliche. Le sparse figurette, Dio quanto tristi e solitarie! cominciarono a convergere per raccogliersi in una turba che si pose ad avanzare, esattamente come farebbe una turba umana.

Tristi e solitarie? Perché un simile pensiero? si domandò George. Questa era la sola cosa che essi non sarebbero stati mai più. Soltanto degli individui possono essere tristi, soltanto degli esseri umani. Senti la mano di Jean accrescere la stretta sulla sua in un brusco spasimo di commozione.

«Guarda» sussurrò Jean. «Io riesco a vedere Jeff. Vicino a quel secondo portello.»

La distanza era molta, e non si poteva essere sicuri, e poi George aveva un velo davanti agli occhi che gli impediva di vedere bene. Ma sì… era Jeff, adesso ne era certo. George adesso poteva riconoscere suo figlio che aveva già posato un piede sul piano metallico.

E Jeff si volse a guardare indietro. La sua faccia era solo una chiazza bianca: a quella distanza era impossibile dire se esprimeva qualche sentimento, se li riconosceva, se ricordava tutto ciò che stava abbandonando. Né George avrebbe mai saputo se Jeff si era voltato verso di loro per puro caso, e se, in quegli ultimi istanti in cui era ancora il loro figlio, sapeva che lo stavano guardando passare in un mondo dove loro non sarebbero mai entrati.

I grandi portelli cominciarono a chiudersi. E in quell’istante Fey levò in alto il muso e lanciò un lungo lamento, desolato, sommesso. Volse poi i begli occhi limpidi verso George, e lui capì che in quel momento Fey aveva perduto il suo padroncino. George non aveva più rivali ora. Per quelli che erano rimasti c’erano molte strade ma una sola destinazione. Qualcuno disse: «Il mondo è ancora bello! Un giorno dovremo lasciarlo, ma perché anticipare la partenza?»

Ma altri, che avevano puntato più sul futuro che sul presente e che avevano perso tutto quello che rendeva la loro vita meritevole di essere vissuta, non desideravano più vivere. Questi decisero di andarsene dal mondo e lo fecero, o soli o coi loro amici, a seconda del carattere. Fu così anche per Nuova Atene. L’isola era nata dal fuoco e scelse di morire nel fuoco. Coloro che preferirono andarsene se ne andarono, ma molti rimasero e finirono in mezzo ai resti dei loro sogni spezzati.

Nessuno poteva sapere quando sarebbe venuto il momento, eppure Jean si svegliò nel silenzio della notte e rimase un momento immobile a guardare la chiara macchia spettrale del soffitto. Poi allungò un braccio per afferrare la mano di George. Lui di solito aveva il sonno pesante, ma questa volta si svegliò subito. Non parlarono perché non esistevano parole per esprimere ciò che avrebbero voluto dire.

Jean non aveva più paura, non era nemmeno triste. Era giunta finalmente, attraverso la tempesta, ad acque calme, e l’emozione non aveva ormai più presa alcuna su di lei. Ma restava una cosa da fare e lei sapeva che c’era appena tempo. Sempre in silenzio, George la seguì per la casa in cui regnava una pace solenne. Attraversarono il fascio di luce lunare che pioveva dal lucernario dello studio, movendosi lentamente insieme con le loro ombre, ed entrarono nella camera che era appartenuta ai loro cari bambini. Non era cambiato niente. Alle pareti luccicavano ancora i quadri fluorescenti che George aveva dipinto con tanta cura. E il sonaglio, che era appartenuto a Jennifer, stava ancora sul pavimento dove lei lo aveva lasciato cadere quando la sua mente si era rivolta alle inconoscibili lontananze dove viveva adesso. Lei, s’è lasciata dietro i suoi balocchi, pensò George, ma i nostri camminano con noi. Pensò ai bambini dei Faraoni, che cinquemila anni prima venivano sepolti con le loro bambole e i loro monili. Sarebbe stato ancora così. Nessun altro dovrà amare i nostri tesori, si disse, noi ce li porteremo via e non ci separeremo mai da loro.

Lentamente Jean si voltò verso di lui e gli posò la testa su una spalla. Lui la strinse fra le braccia, forte, e l’amore di un tempo tornò a colmarlo, attutito dalla distanza ma limpido, come un’eco rimandata da una lontana catena di montagne. Era troppo tardi, adesso, per dirle tutto quello che sarebbe stato giusto dirle, e George provò più rimorso per la sua passata indifferenza che per i suoi tradimenti. E Jean disse con voce tranquilla: «Addio, caro» e accentuò la stretta delle sue braccia. Non ci fu tempo per la risposta di George, ma anche in quell’istante supremo lui ebbe una sensazione fuggevole di stupore nell’accorgersi che Jean sapeva che il grande momento era giunto. E l’isola salì incontro all’aurora.

21

L’astronave dei Superni arrivò scivolando lungo la sua strada, luminosa come il percorso di una meteora, attraverso la costellazione di Carena. Tra i pianeti esterni del sistema era cominciata la tremenda decelerazione, ciononostante, all’altezza di Marte la sua velocità era ancora vicina a quella della luce. Lentamente gli immensi campi di forza del Sole assorbirono il suo «momentum» mentre ancora le energie della superpropulsione segnavano il cielo con una scia infuocata lunga milioni di chilometri. Jan Rodricks tornava, di sei mesi più vecchio, al mondo che aveva lasciato ottanta anni prima. Questa volta non era più un passeggero clandestino in un nascondiglio segreto, ma se ne stava dietro i tre piloti (perché poi, si chiedeva, ne occorrevano tanti?), a guardare le configurazioni che si formavano e disfacevano sul grande schermo che dominava la sala comando.

I colori e le forme che comparivano sullo schermo non significavano niente per lui, ma Jan immaginò che indicassero i dati che su una nave costruita dagli uomini sarebbero comparsi sotto forma di numeri. Ogni tanto però sullo schermo si vedevano grappoli di stelle, e Jan sperò di vedere presto inquadrata la Terra.

Era contento di tornare nel suo mondo, nonostante tutti gli sforzi che aveva fatto per fuggirne. In quei pochi mesi, era maturato. Aveva visto tanto, viaggiato in regioni così lontane dell’universo che ora si consumava dal desiderio del suo mondo. Capiva perché i Superni avessero escluso la Ter-ra dalle stelle. L’umanità aveva ancora molta strada da percorrere prima di avere la minima parte nella civiltà che lui aveva ora appena intravisto. Che proprio si dovesse pensare, e l’idea gli ripugnava profondamente, che il genere umano non sarebbe mai potuto essere niente di più d’una specie inferiore, tenuta in uno zoo appartato coi Superni come guardiani? Era questo, forse, che Vindarten aveva voluto dire quando, proprio al momento della sua partenza, aveva dato a Jan questo ambiguo avvertimento: «Molte cose possono essere successe sul vostro pianeta durante il tempo trascorso. Potreste non riconoscere il vostro mondo, quando lo rivedrete.»

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