«Ogni giorno di più nutro sentimenti di pietà per costoro.»
George Greggson si sarebbe dichiarato d’accordo sul verdetto dell’Ispettore: non c’era niente d’insolito in Jeff. C’era stato soltanto quello straordinario incidente, più impressionante di un gran colpo di tuono in una lunga e placida giornata estiva. E poi… più niente. Jeff aveva tutta l’energia e la curiosità di ogni altro bimbo di sette anni. Era intelligente, quando si dava la pena di esserlo, ma ben lontano dal pericolo di diventare un genio. A volte, pensava Jean con una certa stanchezza, impersonava perfettamente la definizione classica di un ragazzetto della sua età: «un gran fracasso entro una nube di sporcizia». Non che fosse facile assicurarsi del grado di sporcizia, dato che doveva accumularsi per più strati prima di tradirsi sull’abbronzatura di Jeff. Aveva sbalzi d’umore, questo sì, ed era di volta in volta espansivo o scontroso, riservato o esuberante. Ma anche questo rientrava nella normalità. Non dimostrava preferenza per uno o l’altro dei genitori, e l’arrivo della sorellina non aveva suscitato in lui nessuna gelosia. La sua cartella clinica era un foglio bianco: non era mai stato malato nemmeno un giorno. Ma questo non era insolito in quei giorni, e con quel clima. A differenza di altri ragazzi, Jeff non si annoiava della compagnia di suo padre e raramente lo lasciava per aggregarsi a compagni della sua età. Era evidente che aveva ereditato da George il talento e la passione artistica, e si può dire che appena imparato a camminare era diventato un assiduo frequentatore del palcoscenico del teatro di Nuova Atene. Il teatro, dal canto suo, lo aveva adottato come mascotte, e ormai Jeff era bravissimo nel presentare omaggi floreali alle celebrità teatrali e cinematografiche che visitavano la Colonia. Sì, Jeff era un ragazzo normalissimo. Così George si rinfrancò a misura che andavano a fare insieme passeggiate a piedi o in bicicletta sulla superficie angusta dell’isola. Parlavano tra loro come padre e figli hanno sempre fatto, solo che nella loro epoca non c’erano tante cose da dirsi. Sebbene Jeff non lasciasse mai l’isola, poteva vedere tutto quello che voleva del mondo circostante attraverso l’occhio onnipresente del televisore. Sentiva, come tutti gli altri abitanti della Colonia, un lieve disprezzo per il resto del genere umano. Erano loro la «élite», l’avanguardia del progresso. Sarebbero stati loro a elevare il genere umano fin sulle vette raggiunte dai Superni, e forse ancora più in alto. Non domani, certo, ma un giorno… Non avrebbero mai immaginato che quel giorno doveva venire anche troppo presto.
I sogni cominciarono sei settimane più tardi.
Nell’ombra della notte subtropicale, George Greggson nuotava lentamente risalendo dal sonno alla coscienza. Non sapeva che cosa lo avesse destato e per qualche istante rimase coricato in un torpore di perplessità. Quindi si accorse di essere solo. Jean si era alzata e si era diretta senza fare rumore nella camera dei bambini. Ora stava parlando sommessamente con Jeff, così sommessamente, infatti, che George non riuscì a capire una parola di quello che diceva. George sgusciò a fatica dal letto e raggiunse la moglie nella stanza accanto. La sola luce era quella che emanava dai quadri fluorescenti appesi alle pareti della camera. Al loro chiarore opaco, George scorse Jean seduta ai capezzale di Jeff. Lei si volse sentendolo entrare e sussurrò: «Non svegliare la bambina.»
«Che cosa è successo?»
«Sapevo che Jeff aveva bisogno di me e mi sono svegliata.»
La semplicità della dichiarazione con cui Jean dimostrava di accettare il fatto come normale, dette a George una stretta al cuore. «Sapevo che Jeff aveva bisogno di me». E come facevi a saperlo? avrebbe voluto chiedere a Jean. Ma si limitò a dire: «Aveva gli incubi?»
«Non mi sembra» rispose Jean. «Ora ha l’aria di stare benissimo. Ma era atterrito, quando sono entrata.»
«Non ero atterrito per niente, mamma» rispose la vocetta indignata del bambino. «Ma era un posto così strano!»
«Che posto era?» chiese George. «Raccontami tutto.»
«C’erano delle montagne» disse Jeff in tono trasognato. «Erano alte, altissime, ma non avevano neve sulla cima, come tutte le montagne alte che ho visto. E alcune di queste montagne erano in fiamme.»
«Vuoi dire… che erano vulcani?»
«No, non proprio vulcani. Erano completamente ricoperte di fuoco, con delle buffe fiamme azzurre. E mentre stavo guardando, si è levato il sole.»
«Avanti, continua…»
Jeff volse gli occhi sbigottiti verso il padre.
«Ecco un’altra cosa che non capisco, papà. Il sole è sorto con una rapidità incredibile, e poi era troppo grande, era immenso! E poi… non aveva il suo vero colore: era d’un bellissimo azzurro.»
Ci fu un lungo silenzio, un silenzio di ghiaccio che stringeva il cuore. Quindi George disse, in tono pacato: «È tutto qui?»
«Sì. Ho cominciato a sentirmi solo e sperduto, e allora la mamma è venuta a svegliarmi.»
George diede una tiratina affettuosa ai capelli scarmigliati del figlio, mentre si stringeva la cintura della veste da camera con l’altra mano. Si sentì a un tratto infreddolito, debole e inetto. Ma non c’era nessuna traccia di questo nella sua voce, quando disse a Jeff: «Non è che un sogno senza senso. Hai mangiato troppo a cena. Ora non ci pensare più e cerca di dormire, sii bravo.»
«Sì, papà» rispose Jeff. Rimase in silenzio per un istante e poi aggiunse, in tono pensoso: «Forse cercherò di tornarci, in quello strano posto.»
«Un sole azzurro?» disse Karellen qualche ora più tardi. «Questo deve avere facilitato inoltre l’identificazione.»
«Sì» rispose Rashaverak. «Si tratta senza possibilità di dubbio di Alphanidon Due. Le Montagne Sulfuree confermano il fatto. Ed è interessante notare la distorsione della scala temporale. Il pianeta ruota sul proprio asse con notevole lentezza, per cui egli deve avere osservato un tratto di parecchie ore in qualche minuto.»
«È tutto quanto siete in grado di scoprire?»
«Sì, senza interrogare direttamente il bambino.»
«Non possiamo osare tanto. Gli eventi devono seguire il loro corso naturale senza interferenze da parte nostra. Quando i suoi genitori verranno in contatto con noi… allora forse potremo interrogarlo.»
«Possono anche non venire mai in contatto con noi. O farlo quando sarà troppo tardi.»
«Temo che a questo non si possa rimediare. Non dobbiamo mai dimenticarlo: in queste cose la nostra curiosità non ha nessuna importanza. Non è più importante nemmeno della felicità del genere umano.»
Alzò la mano per togliere la comunicazione.
«Continuate la vostra sorveglianza, naturalmente, e riferitemi ogni risultato degno di nota. Ma ricordatevi di non interferire in nessun modo!»
Eppure, da sveglio Jeff sembrava lo stesso identico ragazzetto di sempre: cosa di cui almeno, pensò George, c’era da essere grati. Ma la paura ingigantiva sempre più nel suo cuore. Per Jeff non era che un gioco: non aveva ancora nemmeno cominciato a spaventarlo. Un sogno era semplicemente un sogno, per strano che fosse. E non si sentiva più troppo solo e sperduto nei mondi che il sonno gli dischiudeva. Era stato soltanto quella prima volta, quando la sua mente aveva invocato l’aiuto di Jean varcando chi sa quali abissi misteriosi, insondabili. Ora aveva imparato ad andare solo e senza timore nell’universo che gli spalancava le porte.
La mattina poi gli facevano un sacco di domande, e lui raccontava tutto quello che poteva ricordare. Talvolta le parole si accavallavano o gli mancavano, quando tentava di descrivere scene che non solo erano al di là di ogni sua esperienza, ma al di là della stessa immaginazione umana. Padre e madre gli venivano in aiuto suggerendogli parole nuove, mostrandogli fotografie a colori per stimolare la sua memoria e poi cercando loro di descrivere la scena, disegnandola in base alle sue risposte. Spesso non riuscivano però a capire niente dal risultato dei loro sforzi, per quanto sembrasse che nella mente di Jeff i mondi del suo sogno fossero ben chiari e definiti. Lui infatti sapeva benissimo com’erano, ma non riusciva a descriverli ai genitori. Eppure alcuni di quei mondi sarebbero dovuti essere comprensibili…
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