Lo spazio soltanto, nessun pianeta, nessun paesaggio circostante, nessun mondo sotto i piedi; ma le stelle soltanto, nella notte di velluto, e sospeso sullo sfondo delle stelle un enorme sole rosso, pulsante come un cuore. Immenso e rarefatto un istante, si raggrinziva lentamente, già più fulgido, come se nuovo combustibile fosse stato gettato nelle fornaci del suo interno. Risaliva la scala dello spettro fino a sfiorare i margini del giallo, e poi il ciclo ricominciava nel senso opposto, la stella si dilatava e si raffreddava, divenendo ancora una volta una nebulosità dai contorni frastagliati, rosso fiamma.
(«Tipica pulsante variabile» disse Rashaverak con interesse. «Vista inoltre sotto un’enorme accelerazione temporale. Non posso identificarla con certezza, ma la stella più vicina che corrisponda alla descrizione è Rhamsanidon Nove. A meno che non sia Pharanidon Dodici.»
«Qualunque sia la stella» rispose Karellen «il ragazzo si allontana sempre più dal suo mondo.»
«Sempre di più» disse Rashaverak…).
Sarebbe potuta essere la Terra. Un sole bianco spiccava nel cielo azzurro chiazzato di nubi che fuggivano spinte da un temporale. Un’altura digradava dolcemente verso un oceano reso schiumeggiante dal vento rabbioso. Ma tutto era immobile: la scena era come pietrificata, quasi che fosse colta dall’occhio nell’attimo di luce abbagliante di un fulmine. E lontano, molto lontano sull’orizzonte, c’era qualcosa che non apparteneva alla Terra, una fila di colonne di fumo che si assottigliavano a mano a mano che, uscite dall’acqua, salivano incontro alle nubi. Quelle colonne erano perfettamente equidistanti tra loro lungo tutto il perimetro di quel pianeta che era troppo grande per essere un mondo artificiale, eppure troppo regolare per essere naturale.
(«Sidenens Quattro e i Pilastri dell’Alba» disse Rashaverak, e c’era un tono di timore riverenziale nella sua voce. «Ha raggiunto il centro dell’universo.»
«E ha appena cominciato il suo viaggio» rispose Karellen).
Il pianeta era assolutamente piatto. La sua enorme forza di attrazione gravitazionale aveva già da gran tempo schiacciato a un livello uniforme le montagne della sua gioventù aggressiva. Era un mondo a due dimensioni, popolato da esseri che non potevano avere uno spessore maggiore d’una frazione di centimetro. Eppure c’era vita su di esso perché la sua superficie era percorsa da una miriade di disegni geometrici che si muovevano e mutavano colore. E nel cielo splendeva un sole quale soltanto un fumatore di oppio avrebbe potuto immaginare in una delle sue allucinazioni più sfrenate. Troppo caldo per essere bianco, era un fantasma lancinante, che ai confini dell’ultravioletto bruciava i suoi pianeti con radiazioni letali per ogni forma di vita. Era una stella a paragone della quale il pallido sole della Terra sarebbe stato così fioco come una lucciola nella gran luce del mezzogiorno. («Hexanerax Due, la sola stella di quel tipo in tutto l’universo conosciuto» disse Rashaverak. «Soltanto una piccola squadra delle nostre navi è potuta giungervi: e non si sono tentati atterraggi perché nessuno avrebbe potuto immaginare che la vita potesse esistere su pianeti simili.»
«A quanto pare» osservò Karellen «voi scienziati non siete poi stati così scrupolosi come avevate creduto. Se quelle figure… quei disegni, potremmo dire, sono intelligenti, il problema di come entrare in comunicazione sarà molto interessante. Mi domando se abbiano il più lieve sentore della terza dimensione…»).
Era un mondo che non avrebbe mai potuto avere il concetto della notte e del giorno, degli anni e delle stagioni. Sei soli variopinti si dividevano il suo cielo, così che c’era soltanto un mutamento di luce. Le tenebre non calavano mai. Tra i sussulti e gli strattoni dei campi gravitazionali contrastanti, il pianeta percorreva le curve e gli anelli annodati dalla sua orbita incredibilmente complessa, senza mai passare per lo stesso punto. Ogni momento era unico: la configurazione che in quell’istante i sei soli tracciavano nel cielo non si sarebbe più ripetuta per tutta l’eternità. E anche lì c’era vita: che importava se ai cristalli sfaccettati e raggruppati in complicate forme geometriche occorreva un millennio per completare un pensiero?
L’universo era giovane, e il tempo senza fine.
(«Ho ripassato tutti i dati in nostro possesso» disse Rashaverak. «Non abbiamo notizia né di un mondo simile né di un simile combinazione di soli. Se esistesse in seno al nostro universo, gli astronomi lo avrebbero scoperto, anche se si trovasse al di là del raggio di azione delle nostre astronavi.»
«Allora significa che il ragazzo è uscito dalla Via Lattea.»
«Appunto. L’evento non può tardare più, ormai.»
«Chi lo sa? Il ragazzo si limita a sognare. Quando si sveglia è sempre lo stesso. Siamo ancora nella prima fase. Sapremo presto quando il cambiamento avrà inizio»).
«Noi ci siamo già conosciuti, signor Greggson» disse gravemente il Superno. «Mi chiamo Rashaverak. Credo che vi ricordiate di me.»
«Certo» disse George «ci siamo conosciuti a una festa in casa di Rupert Boyce. Non dimentico facilmente. E poi ero sicuro che ci saremmo incontrati di nuovo.»
«Ditemi, perché avete voluto questo colloquio?»
«Credo che lo sappiate già.»
«Può darsi. Ma gioverà a entrambi, se vorrete esprimervi con le vostre parole. Può darsi che vi sorprenda, ma anch’io cerco di capire, e sotto molti riguardi la mia ignoranza è profonda quanto la vostra.»
George guardò il Superno con espressione sbalordita. Ecco un’idea che non gli era mai passata per la testa. Aveva sempre inconsciamente presunto che i Superni avessero ogni sapere e ogni potere e che comprendessero le cose che erano accadute a Jeff e ne fossero, probabilmente, causa.
«Immagino» disse George «che abbiate visto i rapporti che ho fatto allo psichiatra dell’isola e siate perciò al corrente dei sogni. Non ho mai creduto che fossero dovuti alla immaginazione di un bambino. Sono talmente incredibili che, per quanto possa sembrare ridicolo, dovevano basarsi su qualche realtà.»
Guardò ansiosamente Rashaverak, non sapendo se sperare una conferma o una smentita.
Il Superno non disse niente, ma si limitò a guardarlo coi suoi grandi occhi placidi.
«Ci siamo stupiti in un primo momento» riprese George «ma non proprio allarmati. Jeff sembrava perfettamente normale quando si svegliava, e i suoi sogni parevano preoccuparlo. Poi, una notte» esitò, e guardò con espressione cauta il Superno «una notte… non ho mai creduto nel soprannaturale, devo dire, non sono scienziato, ma penso che debba esserci una spiegazione razionale per ogni specie di fenomeno…»
«C’è» disse Rashaverak. «So quello che avete visto: stavo osservando.»
«L’ho sempre sospettato. Ma Karellen aveva promesso che non ci avreste spiati coi vostri strumenti speciali. Perché non è stata mantenuta la promessa?»
«Non sono stato io a romperla. Il Supercontrollore disse che la razza umana non sarebbe più stata sotto sorveglianza. La promessa è stata mantenuta. Io sorvegliavo i vostri figli, non voi.»
Occorsero alcuni secondi prima che George intendesse il sottinteso della risposta di Rashaverak. E si fece mortalmente pallido.
«Volete dire…?» ansimò. La voce gli si spense e dovette ricominciare da capo. «Ma dunque che cosa sono, in nome di Dio, i miei figli?»
«È proprio quello che stiamo cercando di scoprire» rispose Rashaverak solennemente.
Jennifer Anne Greggson, più nota in famiglia col nome di Bambola, giaceva supina con gli occhi strettamente chiusi. Da tanto tempo li teneva chiusi e non li avrebbe mai più riaperti, perché adesso la vista le era superflua come alle multisensoriali creature delle profondità oceaniche, dove non c’era luce. Lei si rendeva conto di ciò che la circondava e sapeva e si rendeva conto di infinite altre cose.
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