Spider Robinson - Stardance

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Stardance: краткое содержание, описание и аннотация

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Shara Drummond ama talmente la danza da trasferirsi nello spazio pur di continuare a danzare. E oltre ad inventare una nuova forma d’arte riuscirà anche a sventare un’invasione aliena.
Vincitore dei premi Hugo e Nebula per il miglior romanzo breve
in 1978.

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Finalmente la sua voce arrivò attraverso l’altoparlante, dapprima impastata e confusa, come se parlasse nel sonno. — Dio, Charlie. È strano. Così strano. Sto incominciando a capirli.

— Come?

— Ogni volta che incomincio a comprendere una parte della danza, ci… ci porta un po’ più vicini. Non è esattamente telepatia. Ma io… li conosco meglio, ecco. Danzano ciò che sentono, gli imprimono una intensità sufficiente per farmi capire il significato. Sto afferrando all’incirca un concetto su tre. Da vicino è più forte.

La voce di Cox era gentile ma ferma. — Che cos’ha appreso, Shara?

— Che avevano ragione Tom e Charlie. Sono bellicosi. C’è una sfumatura d’arroganza, in loro… una convinzione di superiorità. La loro danza è una sfida. Dica a Tom che usano i pianeti.

— Cosa?

— Credo che in una fase del loro sviluppo siano corporei e legati ai pianeti. Poi, quando sono maturi… diventano queste lucciole, come i bruchi si trasformano in farfalle, e si dirigono nello spazio.

— Perché? — chiese Cox.

— Per trovare terreni da riproduzione. Vogliono la Terra.

Vi fu un silenzio che durò forse dieci secondi. Poi Cox parlò, senza alzare la voce. — Si allontani da loro, Shara. Voglio vedere cosa si può fare con i laser.

— No! — gridò lei, abbastanza forte per causare una distorsione di prim’ordine nell’altoparlante.

— Shara, come mi ha fatto notare Charlie, lei non è soltanto sacrificabile, ma è già sacrificata a tutti gli effetti pratici.

— No! — Questa volta fui io a gridare.

— Maggiore — disse Shara, in tono concitato, — non è il sistema giusto. Mi creda, loro sono in grado di sfuggire o di resistere a tutti i mezzi che la Terra può usare. Lo so.

— Morte e dannazione — disse Cox, — che cosa vuole che faccia? Lasciare che siano loro a tirare il primo colpo? In questo momento stanno venendo qui navi spaziali di quattro paesi.

— Maggiore, attenda. Mi dia tempo.

Cox incominciò a bestemmiare, poi s’interruppe. — Quanto?

Lei non rispose direttamente: — Se questa specie di telepatia funzionasse anche nell’altro senso… dev’essere cosi. Per loro non sono più strana di quanto lo siano loro per me. Probabilmente lo sono anche meno: ho la sensazione che abbiano viaggiato e visto molte cose. Charlie?

— Sì?

— Incomincia le riprese.

Lo sapevo. L’avevo capito dal primo momento che l’avevo vista nello spazio, sul monitor. E sapevo di che cosa aveva bisogno, adesso, lo capivo dal leggero tremito della sua voce. Era necessaria tutta la mia forza d’animo, ed ero contento di poterlo fare. Con allegria estremamente realistica le dissi: — In bocca al lupo, piccola, — e spensi il microfono prima che lei potesse sentire il mio singhiozzo.

E Shara danzò.

Incominciò adagio, l’equivalente di un esercizio al pianoforte con un solo dito, mentre cercava di stabilire un vocabolario di movimenti che gli esseri potessero comprendere. «Potete vedere», sembrava dire, «che questo movimento è una tensione di desiderio? Vedete che questo è una ripulsa, questo una rivelazione, e questo un’elisione graduata d’energia? Sentite l’ambiguità nel modo in cui distorco questo arabesque, sentite che la tensione si può risolvere così?»

E sembrava che Shara avesse ragione, che quelli avessero un’esperienza in fatto di culture disparate infinitamente maggiore della nostra, perché erano superbi linguisti del moto. Più tardi pensai che forse avevano scelto il moto come mezzo di comunicazione a causa della sua universalità. Comunque, mentre la danza di Shara incominciava ad intensificarsi, la loro prese a rallentare percettibilmente, fino a che rimasero librati nello spazio, immobili, ad osservarla.

Poco dopo, Shara dovette concludere che aveva definito i suoi termini in modo sufficiente almeno per una comunicazione rudimentale, perché incominciò a danzare veramente. Prima aveva usato soltanto i suoi muscoli e le masse degli arti. Ora aggiunse i razzi di spinta, uno alla volta o in combinazione. La sua danza divenne una danza vera: più di una collezione di movimenti, una cosa che aveva sostanza e significato. Era indiscutibilmente Stardance come l’aveva pre-coreografata, come aveva sempre avuto intenzione di eseguirla. Non era una coincidenza che avesse qualcosa da dire a esseri assolutamente alieni, qualcosa dell’uomo e della sua natura: era l’essenziale e suprema espressione della più grande artista della sua epoca, e aveva qualcosa da dire a Dio stesso.

Le luci delle telecamete facevano balenare d’argento la tuta pressurizzata, d’oro le bombole dell’aria sulle sue spalle. Si muoveva sullo sfondo nero dello spazio, intessendo la danza intricata in un movimento agevole che sembrava lasciarsi dietro un’eco. E il significato di quei volteggi e di quelle piroette divenne a poco a poco chiaro, e io mi sentivo la gola arida e stringevo i denti.

Perché la sua danza parlava né più né meno che della tragedia di essere vivi e di essere umani. Parlava, con estrema eloquenza, del dolore. Parlava, con profonda conoscenza, della disperazione. Parlava della crudele ironia dell’ambizione sconfinata legata alla capacità limitata, dell’eterna speranza investita in un’esistenza effimera, della smania di cercare di creare un futuro inesorabilmente predeterminato. Parlava di paura e di fame e, chiaramente, della fondamentale solitudine e dell’alienazione dell’animale umano. Descriveva l’universo visto attraverso gli occhi dell’uomo: un ambiente ostile, la materializzazione dell’entropia in cui tutti veniamo scagliati, soli, impediti dalla nostra natura dal toccare un’altra mente se non in modo indiretto, per procura. Parlava del cieco spirito di contraddizione che costringe l’uomo a lottare enormemente per una pace che, una volta ottenuta, diventa noia. E parlava della follia, del terribile paradosso in forza del quale l’uomo è simultaneamente capace di ragionare e sragionare, perpetuamente incapace di collaborare persino con se stesso.

Parlava di Shara e della sua vita.

Si ripetevano continuamente le affermazioni cicliche di una speranza che crollava nella confusione e nella rovina. Continuamente, gli slanci d’energia cercavano una risoluzione e trovavano soltanto frustrazione. All’improvviso Shara si lanciò in una serie di movimenti che mi sembrava familiare, e quasi subito la riconobbi: era la parte conclusiva di Massa è un verbo , ricapitolata… non ripetuta, bensì ripresa, echeggiata, e i Tre Interrogativi ricevevano un’urgenza più terribile dal nuovo altare su cui venivano ammucchiati. E come prima, veniva quella contrazione finale e implacabile, quell’ultimo ritrarsi di tutte le energie. Il suo corpo si abbandonò, alla deriva nello spazio, e l’essenza del suo essere si rinchiuse nel suo centro, invisibile.

Per la prima volta gli alieni si mossero.

E all’improvviso Shara parve esplodere, sbocciando dalla contrazione non come una molla che scatta, ma come un fiore che nasce da un seme. La forza di quello slancio la scagliò attraverso il vuoto come se fosse un gabbiano, travolto da un uragano di venti galattici. Il suo centro pareva scagliarsi attraverso lo spazio e il tempo, trascinando il suo corpo in una nuova danza.

E la nuova danza diceva: «Questo è ciò che significa essere umani: capire l’essenziale futilità di ogni azione, di ogni lotta… e agire e lottare. Questo è ciò che significa essere umani: cercare sempre di afferrare qualcosa d’inafferrabile. Questo è ciò che significa essere umani: vivere in eterno o morire nel tentativo. Questo è ciò che significa essere umani: formulare perpetuamente gli interrogativi senza risposta, nella speranza che, formulandoli, si affretti in qualche modo il momento in cui troveranno una risposta. Questo è ciò che significa essere umani: lottare nonostante la certezza del fallimento.

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