Spider Robinson - Stardance

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Shara Drummond ama talmente la danza da trasferirsi nello spazio pur di continuare a danzare. E oltre ad inventare una nuova forma d’arte riuscirà anche a sventare un’invasione aliena.
Vincitore dei premi Hugo e Nebula per il miglior romanzo breve
in 1978.

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Lui sorrise pigramente. — Sì, ma potrebbe darsi che io non ti volessi per sempre, tesoro. Mia madre mi ha sconsigliato di prendere decisioni irrevocabili per quanto riguarda le donne. Soprattutto nei legami non ufficiali. Inoltre, ho notato che il sesso a gravità zero è troppo sfibrante, come dieta invariabile.

Io avevo quasi ritrovato la voce, ma a questo punto la persi di nuovo. Ero contento che Carrington la rifiutasse… ma il modo in cui lo faceva mi metteva addosso la voglia di bere il suo sangue.

Anche Shara restò ammutolita per un po’. Quando parlò, lo fece a voce bassa e intensa, quasi supplichevole. — Bryce, è questione di tempismo. Se trasmetto altre due danze nelle prossime quattro settimane, avrò un mondo al quale potrò tornare. Se dovrò trasferirmi sulla Terra e attendere un anno o due, la terza danza affonderà senza lasciar traccia… nessuno la guarderà, e nessuno ricorderà le prime due. È la mia unica possibilità, Bryce… lascia che corra il rischio. Panzarella non può garantire che quattro settimane mi uccideranno.

— Non posso garantirle che sopravviverà — disse il dottore.

— Non può garantire che nessuno di noi arriverà vivo fino a sera — ribatte lei. Si voltò di nuovo verso Carrington, l’inchiodò con gli occhi. — Bryce, lasciami rischiare. — Con uno sforzo immenso sfoggiò un sorriso che mi trafisse il cuore come una coltellata. — Farò in modo che non debba pentirtene.

Carrington assaporò quel sorriso e quella resa totale come se stesse assaggiando un ottimo Boredaux. Io avrei voluto ammazzarlo con le mani e coi denti, e pregavo che aggiungesse la crudeltà finale di un rifiuto. Ma avevo sottovalutato la sua vera capacità di essere crudele.

— Continua le prove, mia cara — disse finalmente lui. — Prenderemo una decisione definitiva quando verrà il momento. Dovrò pensarci sopra.

Non credo d’essermi mai sentito così disperato, così impotente in tutta la mia esistenza. Sebbene sapessi che era inutile, dissi: — Shara, non posso lasciare che rischi la vita…

— Lo farò, Charlie — m’interruppe. — Con te o senza di te. Nessun altro conosce abbastanza bene il mio lavoro per registrarlo come si deve, ma se vuoi chiamarti fuori non posso fermarti. — Carrington mi osservava con distaccato interesse. — Dunque?

Io dissi una parolaccia. — Conosci già la risposta.

— Allora mettiamoci al lavoro.

I novellini vengono trasportati sulle scope gravide. I veterani si aggrappano fuori dalla camera di compensazione, tenendosi appesi per le maniglie alla superficie esterna dell’Anello rotante. Stanno rivolti nella direzione della rotazione e, quando la loro meta compare sotto l’orizzonte, si lasciano andare. I razzi di spinta inseriti nei guanti e negli stivali servono per effettuare le necessarie correzioni di rotta. Non si tratta di grandi distanze. Io e Shara, dopo aver trascorso nell’imponderabilità più ore di tanti tecnici che erano allo Skyfac da anni, eravamo veterani. Facevamo un uso sobrio ed efficiente dei razzi di spinta, soprattutto per controbilanciare l’energia impartitaci dalla rotazione dell’Anello quando l’abbandonavamo. Avevamo microfoni a gola e ricevitori auricolari, ma non conversammo durante la traversata del vuoto. Io impiegai il tragitto contemplando il vuoto stellato attraverso il quale cadevo (avevo finito per capire il fascino del paracadutismo) e domandandomi se mi sarei mai abituato all’interruzione del dolore alla gamba. In quei giorni, sembrava che dolesse meno persino sotto l’effetto della rotazione.

Atterrammo, con molta meno forza di un paracadutista, sulla superficie del nuovo studio. Era un enorme globo d’acciaio, costellato di pannelli solari e di congegni per la dispersione del calore, legato ad altre tre sfere in diversi stadi di costruzione, sulle quali stavano lavorando già adesso innumerevoli figure in tuta pressurizzata. McGillicuddy mi aveva detto che il complesso, una volta completato, sarebbe stato usato per «lavorazioni a densità controllata», e quando io avevo commentato «Che bellezza», lui aveva soggiunto: — Polistirolo espanso dispersivo e fusioni a densità variabile, — Come se questo chiarisse tutto. E forse era così. Al momento, comunque, era lo studio di Shara.

La camera di compensazione conduceva in un ambiente da lavoro piuttosto piccolo, intorno a una sfera interna d’una cinquantina di metri di diametro. Era pressurizzata anche quella, ed era destinata a contenere il vuoto, ma i portelli stagni erano aperti. Ci togliemmo le tute, e Shara prese i bracciali a razzo da un supporto e li mise, tenendosi appesa alla trave per i piedi. Poi mise le cavigliere. Come gioielli erano un po’ ingombranti… ma ognuno di essi aveva un’autonomia di venti minuti, e il loro funzionamento non era visibile in condizioni di atmosfera e d’illuminazione normali. Senza quelli, la danza a gravità zero sarebbe stata molto più difficile.

Mentre stava affibbiando l’ultimo cinturino, mi lanciai davanti a lei e mi aggrappai alla trave. — Shara…

— Charlie, posso farcela. Sono disposta a far ginnastica in tre gravità, e dormirò in due, e il mio organismo durerà. So di potercela fare.

— Potresti saltare Massa è un verbo e passare direttamente a Stardance.

Scrollò la testa. — Non sono ancora pronta… e non lo è neppure il pubblico. Devo guidare me stessa e gli spettatori, attraverso una danza in una sfera, in uno spazio chiuso, prima di essere pronta a ballare nello spazio vuoto e prima che loro riescano ad apprezzarlo. Devo liberare la mia mente e la loro da quasi tutti i pregiudizi sulla danza, devo cambiare i postulati. Già due stadi sono pochi… ma sono il minimo irriducibile. — I suoi occhi si addolcirono. — Charlie, devo farlo.

— Lo so — dissi in tono burbero, e mi voltai dall’altra parte. Le lacrime sono una scocciatura, in condizioni d’imponderabilità… non vanno da nessuna parte. Incominciai a trascinarmi intorno alla superficie della sfera interna, verso la postazione della telecamera sulla quale stavo lavorando, e Shara entrò nella sfera e incominciò le prove.

Io pregavo, mentre lavoravo con il mio equipaggiamento, snodando i cavi fra le travi di supporto e collegandoli ai terminal fluttuanti. Per la prima volta dopo tanti anni pregavo, pregavo che Shara ce la facesse. Che ce la facessimo tutti e due.

I dodici giorni che seguirono furono i più duri della mia vita. Shara lavorava il doppio di me. Passava metà della giornata nello studio, parte del resto a far ginnastica in due gravità e un quarto (il massimo consentito dal dottor Panzarella) e l’altra parte nel letto di Carrington, cercando di farlo contento perché le permettesse di protrarre il tempo limite. Forse, nelle poche ore che rimanevano, dormiva. So soltanto che non aveva mai l’aria stanca, non smarriva mai la compostezza e la sua decisione ostinata. Cocciutamente, con riluttanza, il suo corpo perdeva la goffaggine, acquistava eleganza persino in un ambiente dove la grazia richiedeva una concentrazione enorme. Come un bambino impara a camminare, Shara imparava a volare.

Io incominciavo ad abituarmi all’assenza del dolore alla gamba.

Che cosa posso dirvi di Massa , se non l’avete vista? È impossibile descriverla, anche male, in termini meccanici, così com’è impossibile scrivere a parole una sinfonia. La terminologia convenzionale della danza, a causa dei suoi assunti insiti, è peggio che inutile, e se conoscete un po’ la nuova nomenclatura dovete conoscere Massa è un verbo , dalla quale i suoi assunti.

Non posso dir molto degli aspetti tecnici di Massa. Non c’erano effetti speciali: non c’era neppure la musica. Il superbo spartito di Brindle fu composto ispirandosi alla danza, e fu aggiunto alla registrazione, con il mio consenso, due anni dopo; ma il Premio Emmy lo vinsi per la versione originale, muta. Il mio contributo, a parte il montaggio e l’installazione dei due trampolini, consistette nel camuffare le batterie di sorgenti luminose ad ampia dispersione in grappoli intorno all’occhio d’ogni telecamera, e nel collegarle in modo che si energizzassero soltanto quando erano fuori campo della camera in funzione al momento… in modo che Shara fosse sempre illuminata di fronte e presentasse due ombre, non sempre congruenti. Non tentai neppure di ricorrere ad acrobazie con le telecamere: registrai semplicemente Shara che danzava, cambiando soggettiva solo quando la cambiava lei.

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