Spider Robinson - Stardance
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- Название:Stardance
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- Издательство:Nord
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- Год:1984
- Город:Milano
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Vincitore dei premi Hugo e Nebula per il miglior romanzo breve
in 1978.
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No, Massa è un verbo può essere descritta solo in termini simbolici, e comunque male. Posso dire che Shata dimostrava che la massa e l’inerzia possono, come la gravità, offrire il conflitto dinamico indispensabile alla danza. Posso dirvi che da esse lei distillava una specie di danza che poteva essere stata immaginata soltanto da un gruppo formato da un acrobata, un cascatore, uno scrittore e una ballerina subacquea. Posso dirvi che Shara abbatteva l’ultimo diaframma tra se stessa e la totale libertà di movimento, piegando il suo corpo alla sua volontà, e lo spazio alle sue esigenze.
E anche così, vi avrò detto ben poco. Perché Shara cercava qualcosa di più della libertà… cercava il significato. Massa era, dopotutto, un evento spirituale. Shara faceva diventare il confronto umano con l’esistenza un atto transitivo, un andare letteralmente incontro a Dio. Non voglio dire che la sua danza si rivolgeva a un Dio esteriore, a un’entità separata con o senza la barba bianca. La sua danza si rivolgeva alla realtà, dava espressione successivamente ai Tre Interrogativi Eterni formulati da ogni essere umano che mai sia vissuto.
La sua danza osservava il suo io e chiedeva: — Come sono qui?
La sua danza osservava l’universo nel quale esisteva l’io e chiedeva: — Come mai tutto questo è qui con me?
E infine, osservando il suo io in relazione all’universo: — Perché sono così sola?
E dopo aver formulato questi interrogativi, dopo averli formulati ardentemente con ogni muscolo e ogni tendine, si soffermava, librata al centro della sfera, con il corpo e l’anima spalancati all’universo: e quando non giungeva nessuna risposta, si contraeva. Non nello stesso modo drammatico di Liberazione ; non era una compressione dell’energia e della tensione. Fisicamente era simile, ma era un fenomeno completamente diverso. Era una messa a fuoco interiore, un atto d’introspezione, un volgersi dell’occhio della mente (dell’anima?) verso se stesso, per cercare risposte che altrove non c’erano. Perciò anche il suo corpo sembrava ripiegarsi su se stesso, compattare la propria massa, con tanta perfezione che la sua posizione nello spazio non ne risultava turbata.
E cercando in se stessa, Shara si chiudeva su un vuoto. C’era la dissolvenza della telecamera che la lasciava sola, rigida, incapsulata, smaniosa. La danza finiva, senza dare risposta ai tre interrogativi, senza risolvere la tensione. Solo l’espressione d’attesa paziente sul suo viso smussava il filo tagliente della non-conclusione, la rendeva sopportabile: un piccolo segnale benedetto che sussurrava: — Il seguito alla prossima puntata.
Il diciottesimo giorno finimmo di registrare, nella forma grezza. Immediatamente, Shara non ci pensò più e incominciò a preparare la coreografia di Stardance , ma io passai due giornatacce al montaggio prima d’essere pronto a dare il benestare per la trasmissione. Mancavano quattro giorni alla mezz’ora in prima serata che Carrington s’era procurato… ma non era quella, la scadenza che mi ossessionava.
McGillicuddy venne nella stanza dove stavo lavorando al montaggio, e non disse una parola, sebbene vedesse le lacrime che mi scorrevano sulla faccia. Feci girare il nastro e lui guardò in silenzio, e presto incominciò a piangere anche lui. Quando il nastro aveva finito di girare ormai da un pezzo disse, a voce bassa: — Uno di questi giorni dovrò abbandonare questo lavoro schifoso.
Io tacqui.
— Facevo l’istruttore di karaté. Ero bravo. Potrei riprendere a insegnare e magari fare qualche esibizione, e guadagnare il dieci per cento di quel che guadagno adesso.
Io tacqui.
— Tutto il maledetto Anello è pieno di microfoni nascosti, Charlie. Dalla scrivania del mio ufficio si può attivare e spiare tutti i videotelefoni dello Skyfac. Quattro alla volta, anzi.
Io tacqui.
— Vi ho visti tutti e due nella camera di compensazione, quando siete rientrati l’ultima volta. Ho visto che lei è crollata. Ho visto che tu la portavi di peso. L’ho sentita quando ti ha fatto promettere di non dirlo al dottor Panzarella.
Attendevo. Incominciava a spuntare una speranza.
McGillicuddy si asciugò le lacrime. — Ero venuto ad avvertirti che stavo andando da Panzarella per riferirgli quello che ho visto. Lui convincerebbe Carrington a rimandarla immediatamente a casa.
— E adesso? — chiesi.
— Adesso ho visto la registrazione.
— E sai che probabilmente Stardance la ucciderà?
— Sì.
— E sai che dobbiamo lasciarla fare?
— Sì.
La speranza si spense. — Allora vattene e lasciami lavorare.
Se ne andò.
A Wall Street e nello Skyfac era pomeriggio inoltrato quando finii il montaggio in modo soddisfacente. Chiamai Carrington, gli dissi di aspettarmi tra mezz’ora, mi feci la doccia e la barba, mi vestii e andai.
Quando arrivai da lui era in compagnia di un maggiore del Comando Spaziale, ma non lo presentò e quindi lo ignorai. C’era anche Shara: indossava qualcosa che sembrava fatto di fumo arancione e che le lasciava scoperti i seni. Evidentemente era stato Carrington a farglielo mettere, con lo stesso spirito con cui un monello scrive parolacce oscene su un altare, ma lei lo portava con una strana dignità che, lo intuivo, doveva indispettirlo. La guardai negli occhi e sorrisi. — Salve, piccola. La registrazione è venuta bene.
— Vediamo — disse Carrington. Lui e il maggiore sedettero dietro la scrivania, e Shara sedette accanto.
Misi il nastro nel proiettore video incorporato nella parete dell’ufficio, abbassai le luci e sedetti di fronte a Shara. La registrazione andò avanti per venti minuti, ininterrottamente, senza sonoro.
Era grandiosa.
«Sgomento» è una parola strana. Per sgomentarvi, una cosa deve colpirvi in un punto non ancora corazzato dal cinismo. Sembra che io sia nato cinico: mi sono sgomentato tre volte, a quanto ricordo. La prima volta fu quando, a tre anni, scoprii che c’era gente capace di far volutamente del male ai gattini. La seconda fu quando, a diciassette anni, scoprii che c’era gente capace di prendere l’LSD e di far del male ad altri per divertimento. La terza volta fu quando finì Massa è un verbo e Carrington disse, in normalissimo tono decisivo: — Molto piacevole; molto elegante. Mi piace, — e io scoprii, a quarantacinque anni, che c’erano uomini, uomini intelligenti, non cretini, che erano capaci di veder danzare Shara Drummond senza capire. Tutti noi, anche i più cinici, abbiamo sempre qualche illusione che ci è cara.
Shara, non so come, lasciò che quel commento le rimbalzasse addosso; ma vidi che il maggiore era sgomento quanto me, e si dominava con un visibile sforzo.
Approfittando di quell’occasione per distrarmi dall’orrore e dallo sbigottimento, lo studiai con più attenzione, e per la prima volta mi domandai cosa ci faceva lì. Aveva la mia età, era magro e più solido di me, con i capellli cortissimi e argentei e un paio di baffetti ben curati. L’avevo preso per un amico di Carrington, ma tre cose mi fecero cambiare idea. Qualcosa di indefinibile, nei suoi occhi, mi diceva che era un militare con una lunga esperienza in combattimento. Qualcosa di altrettanto indefinibile nel portamento mi diceva che era in servizio. E qualcosa di molto definibile nella piega della sua bocca mi diceva che era disgustato del dovere che doveva compiere.
Quando Carrington continuò — Che ne pensa, maggiore? — in toni educati, il maggiore indugiò un momento, raccogliendo i pensieri e scegliendo le parole. Parlò, ma non si rivolse a Carrington.
— Miss Drummond — disse, — io sono il maggiore William Cox, comandante della S.C. Champion , e sono onorato di conoscerla. È la cosa più commovente ed esaltante che abbia mai visto.
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