Spider Robinson - Elefanti malinconici
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- Название:Elefanti malinconici
- Автор:
- Издательство:Nord
- Жанр:
- Год:1984
- Город:Milano
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in 1983.
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Spider Robinson
Elefanti malinconici
Restò seduta in una posizione zazen, concentrata nell’impegno di non concentrarsi, fino a quando fu ora di prepararsi per l’appuntamento. Sembrava che avesse prodotto la solita serenità, e avesse messo tutto in prospettiva. La mano non le tremò, quando incominciò a truccarsi: un viso tranquillo la guardava dallo specchio. Era un po’ sorpresa, anzi, d’essere così calma, fino a quando uscì dall’ascensore dell’albergo al piano del garage e il rapinatore fece la sua mossa. Lei l’uccise anziché storpiarlo. Ovviamente non era un’azione misurata ed equilibrata… le pratiche burocratiche avrebbero rischiato di farla arrivare in ritardo. Irritata con se stessa, nascose il cadavere sotto una lucente roadable Westinghouse nuova il cui proprietario, lo sapeva, si trovava sulla Luna, e proseguì con la sua macchina. Avrebbe dovuto sistemare tutto più tardi, e sarebbe costato parecchio. Non poteva farci niente… Si sforzò di recuperare almeno una parvenza di tranquillità quando la macchina uscì dal garage e svoltò verso nord.
Nulla doveva interferire in quell’incontro e nel ruolo che lei vi avrebbe avuto.
Dozzine di anni-uomo e Dio sa quanti dollari, pensò, buttati in mezz’ora di conversazione. Tutto lo sforzo, tutta la speranza. Insignificante sulla scala della Grande Ruota, naturalmente… ma quando dipende tutto da mezz’ora di conversazione, è come tenere in equilibrio una cartuccia stereo sulla punta di un ago: basta un grammo di peso per logorare un pezzo di diamante. Devo essere più dura del diamante.
Anziché schiarire un finestrino e guardare Washington, D.C.; che si snodava sotto la macchina, accese il televisore. Assorbì e integrò il telegiornale, nel caso che vi fosse qualche notizia appena arrivata che avrebbe potuto sfruttare a proprio vantaggio nell’imminente colloquio. Ma non ce n’erano. Poco dopo, la macchina le parlò: — Devo atterrare, signora. Chiedono l’identificazione oculare. — Quando la macchina si posò, lei schiarì il finestrino e poi l’aprì, presentò il lasciapassare e il documento d’identità al marine in divisa blu, e venne subito autorizzata a proseguire. Su richiesta del marine opacizzò di nuovo il finestrino e lasciò il controllo della macchina al computer di servizio; e quando la macchina si parcheggiò e si spense, scese senza fretta. Un uomo che conosceva la stava aspettando, e sorrideva.
— Dorothy, è un piacere rivederti.
— Salve, Phillip. Sei stato gentile a venirmi ad aspettare.
— Sei incantevole, stasera.
— Troppo gentile.
Non s’irritò per quei convenevoli privi di significato. Aveva bisogno dell’appoggio di Phil, forse. Ma rifletté che tante, tante frasi si erano consumate con l’uso, rese insignificanti da secoli di ripetizioni. Non era un pensiero nuovo.
Se vieni con me, ti riceverà subito.
— Grazie, Phillip. — Avrebbe voluto chiedergli di che umore era il vecchio, ma sapeva che avrebbe messo Phil in una posizione impossibile.
— Credo che abbia avuto fortuna: questa sera il vecchio sembra d’ottimo umore.
Lei sorrise per ringraziare, e decise che se e quando Phil si fosse deciso a farle una proposta, l’avrebbe accettata.
I corridoi attraverso cui la condusse erano ampi, alti e lunghi; l’edificio risaliva a un tempo in cui l’energia costava poco. Persino a Washington, pochi altri si sarebbero permessi di vivere in un ambiente che sprecava tanta energia. L’arredamento estremamente sobrio rafforzava l’impressione creata dalle dimensioni: spazio nudo dal tappeto al soffitto, interrotto approssimativamente ogni quaranta metri da qualche oggetto d’arte squisitamente semplice che valeva almeno un megadollaro, messo in mostra nel modo appropriato. Una ciotola di porcellana bianca, disadorna e perfetta, vecchia più di mille anni, su un ruvido piedistallo di legno di ciliegio. Una sensazionale foto a colori di una strada di campagna coperta di neve, circondata da uno schermo di seta su una lamina d’argento: l’ora del giorno cambiava quando le si passava davanti. Un globo di cristallo d’un metro di diametro, nel quale danzava un ologramma dell’immortale Shara Drummond; dato che aveva smesso di ballare prima dell’avvento della tecnologia olografica, quella doveva essere una dispendiosa ricostruzione realizzata con un computer. Una piccola camera di glassite sigillata contenente la prima scultura a vuoto mai realizzata, la leggendaria Pietra Stellare di Nakagawa. Un visitatore che non avesse avuto fretta avrebbe potuto studiare un oggetto con calma, e poi proseguire per un tratto, assorto nella contemplazione, prima d’incontrarne un altro. Un visitatore che aveva fretta, come Dorothy, non avrebbe incontrato proprio perifericamente gli stimoli straordinari con frequenza sufficiente per imparare il trucco di filtrarli ed escluderli. Ognuno reclamava la sua attenzione, s’insinuava nei suoi pensieri: la distraevano, sia intrinsecamente, sia ricordandole la sterminata ricchezza del loro proprietario. Avvicinare quell’uomo in casa sua, in fretta o senza fretta, significava sentirsi umiliati. Lei sapeva che l’effetto era intenzionale, e non riusciva a trascenderlo: questo la irritava, e sentirsi irritata l’irritava ancora di più. Si sforzò di acquisire un certo distacco.
In fondo ai corridoi che sembravano non finire mai c’era un ascensore. Phillip la fece entrare, premette un pulsante senza lasciarle la possibilità di vedere il numero del piano, e si ritrasse. — Buona fortuna, Dorothy.
— Grazie, Phillip. C’è qualche argomento che è meglio evitare?
— Ecco… non parlare di emorroidi.
— Non sapevo che qualcuno potesse pensare di parlarne.
Phillip sorrise. — Siamo ancora d’accordo per pranzare con me giovedì?
— A meno che tu preferisca spostare l’appuntamento per cena.
Lui inarcò un sopracciglio. — E colazione?
Lei finse di riflettere. — Brunch — decise. Phillip le rivolse un mezzo inchino e indietreggiò.
La porta dell’ascensore si chiuse e lei dimenticò l’esistenza di Phillip.
Gli esseri senzienti sono innumerevoli; io faccio voto di salvarli tutti. Le passioni illusorie sono innumerevoli; io faccio voto di spegnerle tutte. La verità è illimitata; io…
La porta dell’ascensore si riaprì, troncando il Voto del Bodhisattva. Lei non aveva sentito l’ascensore fermarsi… ma sapeva che doveva essere discesa almeno per cento metri. Uscì dalla cabina.
La stanza era più ampia di quanto si aspettasse: tuttavia la grande poltrona a motore la dominava. La poltrona sembrava dominare anche il suo occupante, almeno visivamente. Era un’impressione ingannevole, perché lui dominava tutta quella casa immensa, tutto ciò che vi stava e, in misura notevole, anche il paese in cui sorgeva. Ma non aveva un aspetto molto sensazionale.
Si stava svolgendo una sinfonia olfattiva, il passaggio della cannella di «Infanzia» di Bulachevski. Era una delle sue preferite, e questo l’incoraggiò.
— Buonasera, senatore.
— Buonasera, Mrs. Martin. Benvenuta in casa mia. Mi perdoni se non mi alzo.
— Certo. È stato molto cortese a ricevermi.
— È un piacere e un onore. Un uomo della mia età apprezza la possibilità di trascorrere un po’ di tempo in compagnia di una donna bella e intelligente come lei.
— Senatore, quando incominceremo a parlare?
Lui sollevò una parte della faccia dove un tempo c’era stato un sopracciglio.
— Finora non abbiamo detto nulla di vero. Lei non si è alzato perché non può. La sua gentile accoglienza mi è costata tre favori importanti e parecchio denaro. Più del normale: lei mi ha ricevuta controvoglia. Ha almeno otto amanti, che io sappia, ognuna delle quali mi farebbe sembrare, al confronto, una matrona stupida e noiosa. Ho nascosto un cadavere ancora caldo mentre venivo qui, perché non potevo permettermi di arrivare in ritardo; ho poco tempo e devo parlare d’una questione urgente. Possiamo incominciare?
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