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Michael Bishop: Vita in famiglia

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Michael Bishop Vita in famiglia

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Michael Bishop è senz’altro uno degli autori più completi e maturi della fantascienza degli anni settanta-ottanta, come testimoniano opere ricche di forza narrativa e di brillanti ritratti di culture aliene quali e . Qui lo vediamo all’opera nella descrizione di un’altra società di un futuro non molto lontano, costituita da «anziani» che si riuniscono in matrimoni di gruppo sponsorizzati dal governo. Il loro mondo e le loro strutture sociali sono affascinanti, ma sono proprio i personaggi, ognuno un essere umano magnificamente dipinto, che cattureranno la vostra attenzione e la vostra simpatia.

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Perché Jerry era un tipo simpatico. Nonostante le sue manie.

Entrarono nella stanzetta e lui accese la luce. Dalla porta, Zoe vide un banco su cui vi erano delle fotocopiatrici, pile di fogli, una macchina da scrivere elettronica IBM (ne avevano una dello stesso tipo negli uffici della redazione del Journal/Constitution ) e un mucchio di opuscoli di colore giallo-arancio. Al banco erano inoltre fissati dei piccoli adattatori (messi da Luther) in modo che Jerry potesse sistemare la sedia per poter lavorare più comodamente.

Opuscoli. Non si vedevano in giro molto spesso. E c’era una buona ragione: gli Editti di Soppressione del ’35 avevano bandito le fotocopiatrici private. Ciascuno possedeva una visiconsolle e poteva essere soddisfatto. I Phoenix ne avevano due nella sala comune, per quanto Zoe non li avesse mai visti usarle. Del resto lei stessa, da quando era entrata nel ricovero, non l’aveva mai usata. E adesso vedeva degli opuscoli: opuscoli !

— Mi sono sempre chiesta dove fossero finiti gli autori di pamphlet di Atlanta — disse Zoe. — Stai propugnando la distruzione della nostra Costituzione Urbana?

Jerry si portò una mano sul petto. — Cara Zoe, il mio nome è Zitelman e non Marx, e prima di tutto… no, non prima di tutto, ma come ultima cosa e per sempre, io sono un Phoenix. — Prese una copia dal mucchio e la porse a Zoe, la quale si era fatta più avanti in quel covo da cospiratori zeppo di roba. — Questo numero che ho realizzato in tre o quattro settimane, anzi di più, è dedicato a te. E non solo questa copia, bada bene. Ma l’intero numero.

Zoe osservò la copertina dell’opuscolo dove, sullo sfondo giallo-arancio, spiccava il disegno a china di una fenice stilizzata che rinasceva dalle sue stesse ceneri. Il titolo della pubblicazione era stampato nell’angolo in basso a sinistra, a caratteri piccoli e stretti: Jerry e le sue manie. E un po’ più sotto: Vol. VI, n. 1. — Che cos’è? — chiese Zoe.

— È la nostra famzine — rispose lui. — Tutte le unità settigame ne hanno una. Rivista di famiglia, di cui io sono editore e redattore. Si tratta della Vera Storia e Documentazione dell’unità settigama Phoenix, la quale racchiude gli sforzi creativi e gli utili consigli delle nostre varie mogli. Un giorno, cara Zoe, qui dentro si parlerà anche di te.

— Non dire quattro finché… — disse Zoe sfogliando l’opuscolo.

— Be’, come un intellettuale ormai sicuro delle proprie inclinazioni, ora voglio contare seriamente. — Puntò malignamente un dito deforme verso di lei. — Uno — disse con un comico accento della Transilvania. — Uno… — Lei rise, dandogli un buffetto sulla sua chioma ispida. Ma soltanto il giorno seguente, prima di colazione, Zoe ebbe la possibilità di leggere l’opuscolo, quella copia ancora inedita che Jerry le aveva dato. Vi trovò illustrazioni firmate da Parthena, Helen e Paul, nonché articoli e poesie di ciascun membro della famiglia. Parecchi erano omaggi, brevi elogi allo scomparso Yuichan Kurimoto. Il numero si concludeva con un poemetto in versi liberi che dava il benvenuto a Zoe Breedlove come candidata al matrimonio coi Phoenix. Un composizione un po’ retorica ma di buona fattura. Era firmato J.Z.-Ph. , e quest’ultima pagina si concludeva col motto della famiglia, consistente in una sola parola:

Dignità.

Tutto era così ridicolmente sdolcinato. Come potevano avere la sfrontatezza di inserire lì quella parola? Zoe dovette asciugarsi gli occhi prima di andare in sala da pranzo per la colazione.

11. Nel sole che un tempo era giovane

Di tutti loro, Paul era il più difficile da conoscere. Parthena aveva avuto ragione asserendo che parte della difficoltà era dovuta alla sua mente ormai non più lucida, e che anzi non lo era più da molto tempo. Paul sembrava avere un legame spirituale con il secolo precedente e con l’epoca anteriore alle cupole. Aveva nove anni quando l’Apollo 11 raggiunse la Luna, tredici quando le missioni Apollo ebbero termine, e lui ricordava entrambe le cose.

— Le ho viste alla TV — disse.

Parlava con molta più lucidità della sua adolescenza trascorsa in California che dei fatterelli quotidiani del ricovero. Un altro dei suoi argomenti preferiti era la possibilità di raggiungere non un’imprecisata e sicuramente corrotta vita oltre la morte, bensì l’immortalità del corpo. Infatti il suo unico contatto concreto con il presente era la gioia allo stato puro che provava la domenica pomeriggio, quando offriva delle onorevoli prestazioni e si comportava da uomo maturo. A quanto pareva, le occhiate maliziose e gli ammiccamenti erano gli involontari residui di una gioventù sprecata.

— È diventato sclotico, qui dentro — disse Parthena, dandosi un colpetto sulla testa — per la vita che ha condotto e per la vecchiaia stessa — (Zoe intuì che sclotico stava per sclerotico .) — Droghe, alcool, donne, il gioco. Si vanta di non aver mai avuto un lavoro vero e proprio, ad eccezione del gioco d’azzardo, con cui si guadagnava da vivere. Mr. Leland non se la sente di somministrargli nuovi farmaci che potrebbero rallentare il deperimento delle sue cellule cerebrali. Potrebbe essere il colpo di grazia.

E con quegli occhi da weimaraner e le labbra sottili e screpolate, Paul a volte sembrava il fantasma di se stesso, anziché un essere vivente. Ma poteva muoversi ancora senza troppa fatica. Andava qua e là senza problemi, come un fantasma. Un giorno, tre settimane dopo l’arrivo di Zoe, Paul le si avvicinò nella sala comune, dopo pranzo, (mentre era intenta a esporre in una bacheca le sue foto) e le spinse accanto una sedia. Lei piegò il capo e vide le labbra sottili che incominciavano a muoversi.

— È il momento di una delle mie funzioni — disse. — Tu non assisti a quelle Orto-Urbaniste con Helen e Parthena, per questo credo ti potrà interessare una delle mie. La terrò questa mattina, proprio qui.

— Che tipo di funzione?

— Vedrai. — Ammiccò, forse involontariamente. — La Vera Parola. La predico quattro volte all’anno, una volta al mese secondo il nuovo calendario.

— La Vera Parola su che cosa? Ognuno di noi ha la sua vera parola.

— Su come non morire, donna. È la base di ogni religione.

— No — replicò Zoe. — Non di tutte: solo di quelle che non sanno come regolarsi con questo mondo.

Le labbra sottili si strinsero e gli occhi si dilatarono. Poteva benissimo averlo offeso. In ottant’anni nessuno gli aveva detto che un sistema ontologico non doveva necessariamente concentrare ogni sua dottrina sul problema del «come non morire». O se qualcuno l’aveva fatto, Paul l’aveva dimenticato. Tuttavia, egli cercò di nascondere la sorpresa. — La base — disse maliziosamente — di ogni religione che si rispetti.

Jerry, che aveva casualmente ascoltato la conversazione, raggiunse il tavolo da lavoro: — Porcherie, Paul. Del resto, se domani ci venisse garantita la vita eterna, noi non saremmo niente altro che struldbrug.

Zoe inarcò le sopracciglia: struldbrug ? Paul non replicò.

— È qualcuno che non può morire — spiegò Jerry, — ma che tuttavia continua ad invecchiare e a peggiorare la sua infermità. Fra duecento anni potremmo essere tutti dei poveri vegliardi immortali. Risparmiatemi questa fortuna.

E questo pose fine alla conversazione. Come un fantasma dalle sembianze umane, Paul lasciò la stanza.

Domenica mattina, comunque, Luther scese nella sala comune per prendere uno scatolone di pezzi d’alluminio, il più grande dei quali assomigliava ad un tamburo cilindrico; l’aveva trovato nello sgabuzzino dove tenevano i bersagli delle freccette, l’equipaggiamento da croquet e le carte da gioco, poi assemblò questi pezzi d’alluminio in un… cavallo a dondolo, abbastanza grande per farci salire un uomo.

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