Gene Wolfe - Il miracolo nei tuoi occhi

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Di nuovo alzò le mani al volto dell’uomo, e sentì che era tornato a essere quello di suo padre, ma la bocca di lui disse: — Little Tib, non riesci a capire? È per la Carta della Riserva Federale. È per quella maledetta Carta. È per il fatto di non avere denaro e nessun lavoro, e dover passare tutta la vita come un maledetto cane randagio. Io l’ho avuta soltanto per merito tuo… impegnandomi a darti la caccia. Siamo stati condizionati a farlo: ipnosi profonda e condizionamento anti-impulsi, sanno loro come fare… ma prima di tutto è stato per quella dannata Carta. — E mentre pronunciava quelle parole Little Tib udì il fruscio della spada di Indra che veniva lentamente raccolta dal legno del palco. Balzò giù e fuggì via, senza sapere dove andava e incurante di poter sbattere contro qualcosa.

Quello su cui andò a sbattere, da lì a poco, fu il corpo di Nitty. Addosso a lui non c’erano più odore di sudore e di fuoco di legna: erano stati spazzati via dalla pioggia; ma dava ancora la stessa sensazione di contatto, e anche la sua voce era la stessa quando esclamò: — Ah, eccoti qua! Ti ho cercato dappertutto. Credevo che qualcuno ti avesse portato via con sé per levarti dalla pioggia. Dove sei stato? — Sollevò Little Tib e se lo mise a sedere su una spalla.

Lui gli affondò le mani nei capelli umidi per sorreggersi. — Sul palcoscenico — disse.

— Sempre sul palco? Be’… — Nitty camminava svelto e a passi lunghi, facendo oscillare al suo ritmo il corpo di lui. — Giuro che quello è l’unico posto dove non ho pensato di cercarti. Credevo che te la fossi filata via in fretta in cerca di un posticino asciutto. Ma forse avevi paura di cadere, è così?

— Sì — disse Little Tib. — Avevo paura di cadere giù. — Correndo nella pioggia la cosa che gli aveva bloccato il petto s’era sgonfiata; ora si sentiva vuoto dentro, e debole come se non avesse più ossa in corpo. Due volte fu sul punto di scivolare giù dalla spalla di Nitty, ma ogni volta le grosse mani di lui si sollevarono a trattenerlo.

Il mattino dopo una donna dal profumo gradevole venne dalla scuola per lui. Little Tib era ancora a letto quando la sentì bussare alla porta; ad aprirle andò Nitty, e lei disse: — Buongiorno. So che avete qui un bambino cieco.

— Sì, signora — rispose Nitty.

— Mr. Parker, il nuovo sovrintendente in carica, mi ha chiesto di venire per condurlo a scuola personalmente il primo giorno. Io sono la signorina Munson. Insegno alla classe dei bambini ciechi.

— Non sono sicuro che lui abbia un vestito adatto per la scuola — mormorò Nitty.

— Oh, di questi tempi vengono con indosso qualunque cosa — disse la signorina Munson. Poi vide Little Tib, che era sceso dal letto nel sentire la porta aprirsi, e commentò: — Capisco quel che vuol dire. È vestito per una recita?

— Quella di ieri sera — disse Nitty.

— Ah, io non c’ero, ma ne ho sentito parlare.

Little Tib s’accorse in quel momento d’indossare ancora la specie di gonna che gli avevano dato; poi la tastò e notò che era invece qualcos’altro: una sottile tovaglia di lana, asciutta. Ma aveva sempre la collana, e un braccialetto di metallo a un polso.

— Ne ha un altro, ma è davvero malridotto.

— Ho paura che dovrà indossarlo lo stesso — disse la signorina Munson. Nitty lo portò nel bagno, gli tolse la tovaglia e i due monili, e lo rivestì con il suo vecchio abito. Poi la signorina Munson lo condusse fuori dal motel e gli aprì la portiera della sua piccola auto elettrica.

— Mr. Parker ha riavuto il suo vecchio lavoro? — chiese Little Tib mentre la macchina girava fuori dal parcheggio del motel in strada.

— Riavuto? — si stupì la signorina Munson. — Non sapevo che lo avesse già svolto in passato. Però ho capito che è estremamente qualificato nei programmi educativi. E quando stamattina hanno scoperto che il computer era guasto, lui ha presentato le sue credenziali e si è offerto di aiutarci. Mi ha chiamato verso le dieci e mi ha pregato di occuparmi di te, ma soltanto adesso ho potuto lasciare la scuola.

— È mezzogiorno, vero? — disse Little Tib. — Fa troppo caldo per essere mattino presto.

Trascorse il pomeriggio nell’aula della signorina Munson con altri otto bambini ciechi, mentre una macchina gli faceva muovere una mano su dei puntini sporgenti da un foglio e gli diceva cosa fossero. Quando la scuola fu terminata e poté udire frotte di ragazzini cicalanti passare nel corridoio esterno, una donna più anziana e corpulenta della signorina Munson venne a prelevarlo, e lo portò in un edificio dove c’erano altri bambini, maggiori di lui e tutti dotati della vista. Cenò con loro. La donna grassa s’irritò quando lui, senza accorgersene, spinse fuori dal piatto alcune fette di bietole in insalata. Quella notte dormì in un lettuccio stretto.

Nei tre giorni successivi la routine fu la stessa. Al mattino la donna grassa lo portava a scuola, alla sera veniva a prelevarlo. A casa di lei (Little Tib non riuscì più a ricordare il suo nome, in seguito) c’era un televisore, e una volta finita la cena i bambini avevano il permesso di guardarlo.

Il quinto giorno di scuola sentì la voce di suo padre in corridoio. Qualche istante dopo l’uomo entrò nell’aula della signorina Munson insieme a un impiegato della scuola che sembrava importante.

— Questo è Mr. Jefferson — dise l’uomo della scuola all’insegnante. — È del Governo. Lei deve affidargli in custodia uno dei suoi studenti. Ha un George Tibbs, qui?

Little Tib sentì una mano di suo padre poggiarglisi su una spalla. — È lui — disse l’uomo. Usciti dal portone della scuola s’incamminarono sul marciapiede. — C’è stato un contrordine, figliolo. Devo portarti a Niagara: là sarai esaminato.

— Va bene.

— Non c’era posto per parcheggiare davanti a questa dannata scuola. Ho dovuto lasciare la macchina a un isolato da qui.

Little Tib ricordava lo scalcinato furgone che suo padre aveva quando abitavano nella vecchia casa; adesso in qualche modo intuiva che il furgone e la vecchia casa appartenevano al passato, a quelle memorie di cui faceva parte anche il suo vero padre. Quest’altro padre certo aveva una bellissima macchina.

Udì dei passi, e i suoi occhi ciechi videro un uomo che camminava davanti a loro: un uomo così piccolo che la sua statura non superava quella di lui. Aveva una lucida testa calva, e riccioletti che crescevano soltanto sugli orecchi; il suo abito da cerimonia verde brillante era fornito di due lunghe code posteriori e di due grossi bottoni smeraldini sul martingala. Quando si volse per fronteggiarli (camminando all’indientro per mantenere la distanza) Little Tib vide che il suo volto era rosso e bianco, con due minuscoli occhi neri che sembravano schizzare scintille.

Esibiva un grosso naso a becco come quello di Indra, che però su di lui non aveva un’aria crudele. — Cosa posso fare per te? — chiese a Little Tib.

— Liberarmi — rispose lui. — Digli di lasciarmi stare.

— E poi che farai?

— Non lo so — confessò Little Tib.

L’ometto dall’abito verde annuì fra sé, come se avesse già previsto quella risposta, poi si tolse una busta di carta argentata da una tasca interna della giacca. — Se sarai preso un’altra volta — disse, — questo ti farà comodo. Hai capito? La fuga è solo per chi non ha l’aiuto di nessuno. — Aprì un lato della busta. Era piena di polvere scintillante notò Little Tib mentre l’ometto se ne versava un po’ su una mano. — Tu mi ricordi — proseguì, — un amico di nome Tip. Tip con la p finale; una b è soltanto una p capovolta. — Tirò in aria la polverina luminosa e pronunciò una parola che Little Tib non riuscì a capire.

Per un brevissimo istante ci furono due cose contemporaneamente. C’era il marciapiede, con una fila di macchine da un lato e il prato dall’altro. E c’era l’aula della signorina Munson, con i rumori degli altri bambini e l’odore del pavimento appena lavato. Girò gli occhi sulle lucide carrozzerie delle auto, poi esse svanirono e ci furono solo il suono della voce di suo padre nel corridoio esterno e la sensazione della carta con i puntini in rilievo sotto le dita, sul banco. La voce dell’ometto dal vestito verde (come se non se ne fosse andato affatto) disse: — Tip divenne il governatore di noi tutti alla fine, lo sai? — Poi risuonò il battito di due grandi ali. Ed a questo punto se ne andò definitivamente. La porta dell’aula si aprì, e un impiegato della scuola il cui tono era quello di una persona importante disse: — Signorina Munson, qui c’è un signore che dice d’essere il padre di uno dei vostri alunni.

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