Robert Sawyer - I transumani

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Ascoltare messaggi che vengono dalle stelle è un compito che i radioastronomi eseguono da anni nella speranza che possano arrivarci rivelazioni in grado di cambiare la nostra visione dell’universo. Ed è probabile che un giorno queste comunicazioni arrivino davvero, e che oltre a cambiare tutto ciò che sapevamo di là fuori mettano in discussione ciò che noi stessi siamo (o credevamo di essere). Quando questo avverrà, è probabile che non ci sia più posto per le illusioni dell’homo sapiens. E comincerà la lotta per consentire, o stroncare sul nascere, l’evoluzione di una nuova specie di uomini.

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Sarebbe dovuto ritornare lì a trascorrere ore, giorni, anni, nell’esplorarle la mente, una mente più tranquilla, meno aggressiva, più equilibrata, più intuitiva della sua, una mente…

No.

Non si era spinto sin lì per quello.

Non questa volta.

Ben altro era il suo scopo. Ben altra la sua meta.

Continuò quindi a percorrere la mente di Heather solo quanto bastò a rintracciare un ricordo di Mary. A quel punto eseguì la traslazione di Necker…

…Per ritrovarsi in un luogo dove non accadeva nulla. Assolutamente nulla. Solo tenebre. E silenzio.

Kyle ripensò al discorso di commiato tenuto da sua figlia alla fine del liceo. Quasi all’istante emerse l’analogo ricordo appartenuto a Mary stessa. Dunque i ricordi di Mary erano lì, l’archivio di ciò che lei era stata si conservava intatto… ma completamente inattivo. Definitivamente distaccato dal presente, dalla realtà, dal divenire.

Kyle staccò il contatto. Poi, con uno sforzo di volontà, si reintegrò al cospetto dell’immensa parete di esagoni.

Quello esattamente di fronte a lui era buio. Privo di vita.

Kyle aveva veduto il corpo di Mary esanime sul pavimento del bagno. Pallido, prosciugato, bianco, cereo. Eppure non era mai stato capace di accettare sino in fondo la morte di sua figlia. No, sebbene marchiato a fuoco dall’atroce spettacolo di quella forma inanimata sull’altrettanto gelida indifferenza delle mattonelle, ancora, nell’intimo, non vi si era rassegnato.

Ma adesso…

Adesso sua figlia era lì. Morta. Un contenitore inerte. Una registrazione. Parte dell’archivio dell’umanità.

Comprendeva, ora, che non gli sarebbe stato concesso di parlarle. Non c’era modo d’interagire con Mary, non c’era modo di spiegarle che quanto le avevano fatto credere non era mai accaduto, in realtà.

Poteva, sì, evocare i ricordi appartenuti a sua figlia, ripercorrere il suo passato, ma non poteva comunicare con lei.

Nel chinarsi sulla sua tomba aveva vagheggiato di poter forse, chissà come, stabilire un contatto, farsi udire da lei. Così da potersi scusare… non certo per qualcosa che avesse commesso, ma per le sue omissioni, per non averla protetta dalla rapace irresponsabilità di quell’analista, per non esserle stato accanto quando aveva più avuto bisogno di lui.

Anche se avesse parlato ad alta voce, però, sua figlia non l’avrebbe potuto udire. Gli altri esagoni sembravano fissarlo come tanti occhi, ma quello era così incommensurabilmente buio da non consentire alcun dubbio.

Mary se n’era andata completamente, definitivamente, irrimediabilmente.

Impossibile fare ammenda. E ciò nonostante…

Ciò nonostante, nel prenderne atto non era il macigno della disperazione, quello che si sentiva nascere dentro.

Provava, al contrario, un senso di sollievo, di liberazione.

Per tanto tempo, in certi angoli oscuri della sua mente, a dispetto del proprio ateismo razionalista, egli aveva creduto che Mary continuasse chissà dove un qualche genere di esistenza: ancora consapevole, ancora ricettiva, ancora sofferente.

Ancora colma d’odio nei suoi confronti.

Ma così non era. Mary, semplicemente, non esisteva più.

Non rimaneva altro da dire, altro da fare. Oppure sì?

Alla morte di sua figlia, Kyle aveva pianto.

Aveva pianto di rabbia, furibondo per il gesto assurdo da lei compiuto.

Aveva pianto per l’oltraggio subito, incapace di comprendere.

Ma non aveva pianto per lei.

E d’un tratto i suoi occhi si riempirono di lacrime, copiose, traboccanti.

Stavolta pianse per lei, soltanto per lei. Per la tristezza di una fervida vita recisa ancora in boccio, per tutte le cose che lei era stata e per tutte le altre cose che sarebbe potuta divenire, se le fosse stato concesso.

Cedettero, sotto l’impeto di quel pianto liberatorio, le palpebre esauste, ricostruendo nella sua mente l’interno della struttura.

Ma non aveva terminato.

Ora che finalmente comprendeva perché Heather l’avesse guidato sin lì, e quale fosse il suo estremo dovere.

Si asciugò gli occhi, li spalancò, lo psicospazio riprese forma tutt’intorno, e Kyle tornò a fronteggiare il tenebroso esagono che un tempo Mary aveva illuminato.

Trasse un respiro profondo, esalando insieme a esso l’intero fardello di un’emozione troppo a lungo repressa.

Poi lasciò che una sola, tenera, sincera parola gli sgorgasse spontanea dal cuore.

— Addio.

Ascoltò per qualche istante quella parola riecheggiargli sommessamente entro l’orizzonte del pensiero. Poi chiuse gli occhi e tese la mano a premere il pulsante di arresto, pronto infine a far ritorno nel mondo dei vivi.

35

Kyle sganciò la porta cubica. Heather doveva trovarsi lì accanto in attesa, perché la sentì afferrare la porta dall’esterno.

Ruotò portando i piedi oltre il bordo e discese dalla cavità. Heather lo guardò: senza dubbio poteva leggergli in faccia i segni del pianto.

Kyle accennò un sorriso. — Grazie — le disse. Quindi, notando l’assenza di sua figlia: — Becky dov’è?

— È dovuta andare. Stasera aveva appuntamento con Zack.

Kyle annuì. Erano soli. Meglio così. Poi notò l’inquietudine sul volto di lei e immediatamente ne comprese la causa. Conoscendolo… anzi, avendolo scrutato di recente davvero a fondo, si rendeva conto che prima di esaminare l’oscuro esagono di Mary egli doveva sicuramente aver dato una sbirciatina alla mente di sua moglie. L’espressione sul viso di Heather… l’aveva già vista, un giorno ormai remoto, la prima volta che si erano abbandonati a effusioni in una stanza bene illuminata, invece di brancicarsi al buio. La prima volta che l’aveva vista nuda. Stessa preoccupazione anche allora: imbarazzata, timorosa di non rivelarsi all’altezza delle sue aspettative, eppure desiderabile come non mai.

Kyle spalancò le braccia e la strinse a sé, tanto forte da farle male.

Allorché dopo un poco si distaccarono le prese la mano, e carezzandole con l’indice l’anello matrimoniale: — Ti amo — le disse. Incatenò il suo sguardo. — Ti amo, e voglio trascorrere il resto della mia vita imparando a conoscerti.

Heather gli sorrise, grata di quel ricordo. — Anch’io ti amo — rispose, ed era trascorso un anno dall’ultima volta. Kyle reclinò il volto su di lei e la baciò. Quando le loro labbra si separarono, lei ripeté: — Ti amo, ti amo tanto.

Kyle annuì. — Lo so. Nessun uomo ne è mai stato più sicuro di me.

Poi Heather si fece scura in volto. — Mary?

Kyle esitò un attimo, prima di rispondere. — Ora siamo in pace. Tutti e due.

Heather annuì.

— È incredibile — soggiunse Kyle. — La supermente. Assolutamente incredibile… però…

— Cosa?

— Be’, te lo ricordi il professor Papineau? Tante volte ti ho raccontato quanto fossero entusiasmanti le sue lezioni, vero? Di fisica quantistica lui me ne ha insegnata un bel po’, ma non sono mai riuscito a capirla sul serio, in profondità. Una disciplina elusiva, che spesso mi ha creato più perplessità che certezze. Adesso, però, comincio a vederci chiaro.

— Davvero?

Kyle allargò le braccia come a significare un’interiezione del pensiero, mentre lui andava in cerca di un esempio col quale illustrare la sua nuova visione delle cose. — Mai sentito parlare del gatto di Schrödinger?

— L’espressione non mi è nuova, ma tutto qui.

— Si tratta di un esperimento puramente ipotetico. Immagina di chiudere un gatto dentro un contenitore insieme a una fiala di gas venefico e a un meccanismo che provoca l’emissione del gas se entro un’ora ha luogo un evento quantico le cui probabilità di verificarsi sono esattamente del cinquanta percento. Senza aprire il contenitore dopo un’ora, sei in grado di stabilire se il gatto è vivo o morto?

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