— Su questo non ho dubbi — concluse Heather. — E adesso… coraggio, tocca a te.
Kyle scrutò la struttura, rendendosi conto di esserne ancora intimorito. Baciò di nuovo sua moglie, baciò sua figlia sulla guancia, poi si arrampicò dentro e si mise a sedere sul pavimento del cubo centrale, che pur sotto il suo peso non fece una grinza.
Heather tornò a rammentargli come rivisualizzare la struttura semplicemente chiudendo gli occhi. Poi, con l’aiuto di Becky, sollevò la porta cubica, accorgendosi di quanto fosse più pesante rispetto a quella della struttura originale. Dovettero penare un po’ per sistemarla, ma finalmente si riagganciò in posizione.
Kyle attese che i suoi occhi si abituassero alla penombra. Incantevoli apparivano le costellazioni di quadrangoli piezoelettrici nella loro geometrica semplicità, nonostante la quale dovevano senza dubbio disporsi a formare un qualche genere d’intricato schema: tracce, configurazioni, circuiti lungo cui la piezoelettricità s’incanalava secondo criteri misteriosi per adempiere imperscrutabili funzioni. Quando poi i quarantotto pannelli si ripiegavano sovrapponendosi l’un l’altro, ulteriori complesse interconnessioni andavano certo a generarsi. Una sfida alle leggi della fisica, nuovi strabilianti campi d’indagine, il richiamo dell’ignoto.
Allungando la mano, Kyle premette il pulsante d’avvio.
L’ipercubo gli si ripiegò intorno, proprio come Heather aveva assicurato.
E lui si trovò nella nuova dimensione.
Nello psicospazio.
Dio.
Si sforzò di orientare il proprio punto di osservazione per ottenere la prospettiva descritta da Heather. Inizialmente ebbe anche lui da fare i conti con le due sfere percepite dall’esterno, invece che con i due emisferi congiunti visti dall’interno. Intoppo inevitabile ma piuttosto fastidioso. Come quelle esasperanti immagini 3D tanto di moda verso la metà degli anni Novanta, che nemmeno diventando strabico gli era mai riuscito di vederci qualcosa…
…un ribaltamento repentino e tutto fu a posto.
“Ecco” pensò Kyle “ciò che si prova ad avere il terzo occhio…”
Focalizzò l’attenzione sulla parete stracolma di grandi esagoni e quelli rimpicciolirono dinanzi a lui, riducendosi alle dimensioni di tasti.
Con quel continuo avvicendarsi di prospettive c’era da rimanere storditi. Sentì che gli stava venendo un solenne mal di testa.
Chiuse allora gli occhi, lasciando che la struttura gli si rimaterializzasse attorno, ristabilendo per qualche momento i rapporti con la rassicurante inerzia del mondo reale e godendosi il flusso d’aria che pioveva su di lui dall’esterno.
Non volle indugiare troppo a lungo. Riaprì gli occhi, poi protese una mano invisibile a toccare il primo esagono che gli capitò a tiro…
…rimanendo sbalordito nel trovarsi immerso in un rimescolio d’immagini palpitanti.
Gli ci vollero alcuni secondi per cominciare a capirci qualcosa.
Non era la sua mente.
Sembrava piuttosto il sogno di qualcuno, un ondeggiare di visioni vaghe, distorte, in bianco e nero.
Affascinante. Anche lui sognava in bianco e nero, mentre Heather aveva sempre raccontato di sognare a colori.
Ma non poteva attardarsi. Il tempo delle esplorazioni a ruota libera sarebbe venuto poi.
Fece come Heather gli aveva insegnato e visualizzò se stesso che precipitava sotto forma di cristalli e si riorganizzava.
Tentò di nuovo. Un altro esagono, un’altra mente, ma non la sua. Un camionista, a quanto pare, lo sguardo attento all’autostrada, l’orecchio intento a un pezzo country, il pensiero contento perché sta tornando a casa dai suoi ragazzi.
Riprovò. Un musulmano, si sarebbe detto, prostrato in preghiera.
Ancora. Una ragazzina che saltava la corda nel cortile della scuola.
Ancora. Un contadino annoiato, da qualche parte, in Cina.
Ancora. Sognatore anche stavolta. Anche stavolta in bianco e nero.
Ancora. Una persona addormentata, senza sogni: una mente quasi vuota.
E ancora…
E ancora…
E…
Lui stesso!
Come allo specchio. Riverbero psichico. Disorientamento. Vedeva se stesso nell’atto di vedersi. Si pensava impegnato a pensarsi. Temette per un attimo che potesse innescarsi un sorta di effetto Larsen mentale capace di sovraccaricargli il cervello. Ma con uno sforzo di volontà scoprì di potersi distaccare dal presente, cominciando a ripercorrere il suo passato.
Non ebbe difficoltà a rintracciare immagini di Heather, di Becky…
…e di Mary.
In sostanza era lì per quello, no? Per incontrare la mente di Mary. Certo… però…
Ecco, avere il primo contatto prolungato proprio con un defunto…
Si sentì percorrere da un brivido. Provò una stretta al cuore.
C’era Heather, al centro dei suoi pensieri. Gli aveva spiegato la traslazione di Necker, in qual modo egli potesse effettuare un riorientamento prospettico balzando direttamente all’esagono di lei, ovunque fosse situato.
Sarebbe stato tutto là, esposto senza veli alla sua osservazione. Tutto ciò che sua moglie era. L’intero archivio dei suoi pensieri, delle sue emozioni, delle sue esperienze.
La sua prospettiva. Il suo punto di vista.
Si concentrò su di lei, cambiò la profondità di messa a fuoco, cercò di portare Heather in primo piano mentre lui scivolava sullo sfondo, finché…
Dio.
Dio.
Dio in cielo.
Kyle era troppo giovane per aver visto 2001 all’epoca dell’iniziale uscita nelle sale cinematografiche. L’aveva incontrato la prima volta in video, e non è che sul momento gli avesse poi fatto tutta quell’impressione. Ma nel 1997, all’età di venticinque anni, gli era finalmente capitato di assistere alla proiezione di una copia restaurata, sul grande schermo della Art Gallery of Ontario.
Ed era stato come passare dalla notte al giorno. Dal film che credeva di conoscere alla magnificenza dell’opera vera, più imponente, più ricca, più complessa, densa d’infinite sfumature, assolutamente entusiasmante.
L’alfa e l’omega delle esplorazioni oltre i confini dell’ignoto.
Stavolta fu lo stesso. La Heather che credeva di conoscere, riproposta in cinerama, in un arcobaleno di sfavillanti colori mai visti prima, con effetti quadrifonici e sedile sincroscillante.
Heather, in tutta la sua grandiosa complessità.
In tutta la vastità del suo intelletto.
In tutta l’intensità delle sue emozioni.
La ragazza di cui si era innamorato.
La donna che aveva sposato.
Si accorse che gli occhi gli si chiudevano e riaprivano senza sosta, ma lentamente, tanto da sottoporre la visione interna della struttura a un continuo altalenare dentro e fuori la sua percezione. E d’improvviso ne comprese il motivo.
Le sue palpebre provvedevano ad allontanare le lacrime, perché stava piangendo.
Come in attonita reverenza al cospetto di una straordinaria opera d’arte.
Commosso dinanzi allo splendore di quella creatura che era sua moglie.
Sebbene sposati da ventidue anni, lo investì con un impatto da mozzare il fiato la consapevolezza di quanto poco in realtà la conoscesse, di quanto ancora ci fosse da scoprire in lei.
Heather gli aveva detto di amarlo e le credeva, le credeva con tutta l’anima. Pur destando meraviglia che qualcosa di tanto complesso e intricato come un essere umano potesse giungere ad amarne un altro.
Fu questione di un istante rendersi conto che avrebbe potuto trascorrere il resto dell’esistenza incominciando a conoscerla adeguatamente… e che, qualunque fosse il tempo che gli rimaneva da vivere, non sarebbe mai stato sufficiente a comprendere sino in fondo il prodigio di un’altra mente umana.
Era andato in collera nello scoprire che Heather gli aveva scrutato la mente senza la sua autorizzazione… ma adesso quel sentimento si dissolse come rugiada mattutina. Nessun motivo d’ira o di risentimento, infatti, poiché non si trattava di un’invasione, non da parte di lei: piuttosto una nuova intimità, una vicinanza che trascendeva qualunque esperienza avessero vissuto in passato.
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