Kyle annuì. — È vero. Ricordo di aver fatto più volte un’osservazione del genere.
— Quindi tu, come chiunque altro o quasi, possiedi evidentemente il senso del linguaggio. Ma secondo la teoria di Chomski, con questo senso ci si nasce, e ciò induce a presumere che esso debba essere presente già nel codice genetico.
— Sembrerebbe logico.
— E invece non lo è — si affrettò a correggerlo Heather. — Philip Lieberman ha infatti evidenziato una grossa pecca nella teoria chomskiana. Chomski afferma, in sostanza, che nel cervello di ogni essere umano è presente un identico organo del linguaggio. Ma ciò non è possibile. Non esistono caratteristiche geneticamente determinate che siano identiche in tutte le persone. Avvengono continuamente delle variazioni. L’organo del linguaggio dovrebbe quindi manifestare la stessa variabilità che osserviamo per il colore della pelle e degli occhi, per la statura, per la predisposizione ai disturbi cardiaci, e via dicendo.
— E perché mai, se è lecito?
— Perché non potrebbe essere altrimenti. Lo impongono le leggi della genetica. Segui il mio ragionamento. Ci sono persone che digeriscono i cibi in modo diverso dal normale: un diabetico digerisce in una certa maniera, una persona con intolleranza al lattosio in un’altra maniera. Anche individui ritenuti perfettamente sani possono mostrare scarti significativi, per esempio nel tipo e nella quantità degli enzimi utilizzati. A livello sociale, comunque, ciò non ha importanza: il processo digestivo è una questione assolutamente personale e il modo in cui io mi gestisco il mio non ha alcuna influenza sul modo in cui tu ti gestisci il tuo. Il linguaggio, invece, deve necessariamente essere condiviso… altrimenti in che consiste la sua utilità? Se avvenissero variazioni nel modo in cui io e te elaboriamo mentalmente il linguaggio, non saremmo in grado di comunicare.
— Non sono d’accordo. Cita capisce e si fa capire, eppure utilizza svariate procedure di elaborazione vocale che non si rifanno ad alcun modello umano, ma si basano invece su ingegnosi algoritmi e tecniche avanzate di programmazione.
— Certo, variazioni di modesta entità, che non comportino differenze vistose, non impediscono la trasmissione del significato. Ma proviamo appunto a considerare una sottigliezza linguistica che probabilmente metterebbe in imbarazzo Cita. Io e te concorderemo sul fatto che “grande palla gialla” è una costruzione corretta, mentre l’espressione “gialla palla grande”, se non completamente errata, è senza dubbio anomala… eppure a scuola non ci hanno mai insegnato che la grandezza è più importante del colore. In pratica, tutte le persone che parlano una stessa lingua si trovano d’accordo su minuzie sintattiche che non hanno mai costituito oggetto di esplicito insegnamento. E Chomski sostiene che ciascuna delle circa cinquemila lingue diverse parlate attualmente nel mondo, oltre a tutte le lingue esistite nel passato, segue sostanzialmente le medesime regole. In ciò ha probabilmente ragione: acquisiamo e utilizziamo il linguaggio con tale straordinaria facilità che esso dev’essere innato. Tuttavia non può essere innato geneticamente: come sottolineato da Lieberman, ciò violerebbe una legge fondamentale della biologia, che non solo consente entro certi limiti la diversità individuale, ma ne è al tempo stesso indirizzata in senso evolutivo. C’è anche da dire che nell’ambito del Progetto Genoma Umano non si è riusciti a identificare alcun gene, o combinazione di geni, su cui potesse basarsi l’organo del linguaggio congetturato da Chomski. Il che ci porta a una domanda inevitabile: se è innato e non è di origine genetica, da dove viene?
— E a questo punto, immagino, entra in gioco la tua presunta supermente.
Heather allargò le braccia. — Perché no? Non ti sembra un’ipotesi sensata? Oltretutto non è solo il linguaggio a sembrare precostituito. Anche i simboli sono patrimonio comune di individui e culture. È quello che Jung chiamava “inconscio collettivo”.
— Ma di sicuro lo intendeva come una metafora.
Heather annuì. — All’inizio sì. Comunque il bagaglio di simboli e idee che noi tutti condividiamo è veramente ricchissimo. Conosci il libro di Joseph Campbell L’eroe dai mille volti? Lo uso in uno dei miei corsi. Dimostra come narrazioni mitologiche sostanzialmente simili siano presenti in culture lontanissime fra loro. Che spiegazione dai a un fatto del genere? Semplici coincidenze? Altrimenti che cosa?
— Di nuovo la supermente, mi dirai. Però, via, è un concetto così bizzarro…
— Lo credi davvero? Pensaci bene. Il principio del rasoio di Occam ti invita a scegliere la soluzione col minor numero di elementi. Postulando nient’altro che la super-mente si può risolvere ogni genere di problemi di linguistica, mitologia comparata, psicologia e persino parapsicologia. In effetti si tratta della soluzione più semplice e in tal caso…
L’orologio sul caminetto intonò il quarto d’ora.
— Oh! — s’interruppe Heather. — Scusa, mi sono lasciata prendere la mano, chiacchierona che non sono altro, e comunque ormai non ce la faccio a spiegarti tutto, fra poco abbiamo visite.
— Chi?
— Becky.
Kyle s’irrigidì visibilmente. — Non sono affatto sicuro di volerla vedere. Maledizione, perché non mi hai detto che veniva anche lei?
Heather allargò le braccia. — Perché volevo esser certa che tu non ti rifiutassi. Ascolta, ti garantisco che andrà tutto bene, devi solo avere…
Giunse il rumore della serratura che scattava. Becky aveva aperto da sé, invece di suonare il campanello.
La porta d’ingresso si spalancò. Immobile sulla soglia, rigida, incerta, una sagoma esile si stagliò qualche tempo contro l’oscurità, prima di entrare e dirigersi titubante verso le scale.
Kyle indugiava in piedi accanto alla finestra del soggiorno, sforzandosi di respirare normalmente. Giunta nella stanza, Becky esitava in silenzio. Dalla finestra aperta, il sibilo di un libratore in transito e il cicaleccio di un gruppo di ragazzi che si allontanava sul marciapiede.
— Papà — osò finalmente Becky.
Era la prima volta, da più di un anno, che Kyle la udiva pronunziare quella parola. Teso, indeciso sul da farsi, si limitò ad attendere.
— Papà — ripeté Becky. — Mi dispiace tanto.
Il cuore gli martellava, il respiro gli si mozzava in gola. Sforzandosi di balbettare qualcosa si sentì riaffiorare alle labbra quell’ultima, inutile frase, che come un addio era rimasta impigliata ai brandelli del suo orgoglio di padre: — In vita mia non ti ho mai fatto del male.
— Lo so — rispose Becky. Colmò un poco della distanza che li separava. — Sapessi come sono mortificata. Non era mia intenzione ferirti a quel modo.
Kyle si domandò se la voce gli avrebbe retto. C’era ancora tanta di quella rabbia, tanto di quel risentimento in lui…
— Cosa ti ha fatto cambiare idea? — riuscì ad articolare.
Becky diede un’occhiata a sua madre, poi chinò lo sguardo al pavimento. — Mi… mi sono resa conto che non potevi assolutamente avere fatto una… una cosa come quella.
— Prima però eri sicura, eh? — Nitide e aspre, le parole gli sfuggirono di getto prima che riuscisse a trattenersi.
Becky fece un lieve cenno di assenso. — Lo so. Lo so. Ma ho ricontrollato ciò che mi ha fatto l’analista, le tecniche che ha usato. Io… non lo sapevo che si potessero fabbricare ricordi falsi. — Incrociò di sfuggita lo sguardo di suo padre, poi tornò a fissare il tappeto.
— Quella miserabile — disse Kyle. — Guarda che disastro ha combinato.
Becky fissò di nuovo sua madre, e lui se ne accorse. Quelle due evidentemente se la intendevano, ma erano ancora tante le cose da chiarire…
— Per ora lasciamola perdere — disse Becky. — Ti prego. L’importante è che il malinteso fra noi sia finito… o almeno spero, se mi vorrai perdonare.
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