Kyle parve gradire l’invito, ma poi la sua espressione s’incupì. — Purtroppo ho già un appuntamento.
— Oh — disse Heather, chiedendosi inevitabilmente se si trattasse di un uomo o di una donna. — Be’, pazienza.
Si fissarono ancora per qualche istante, poi Heather se ne andò.
Kyle entrò a Persaud Hall e s’incamminò per l’angusto corridoio, fermandosi poco prima di giungere alla stanza 222.
Stone Bentley… bianco, sui cinquantacinque, spelacchiato e non particolarmente in forma… stava parlando con una studentessa fuori del suo ufficio; vide arrivare Kyle e gli fece segno di attendere un momento. Terminò di parlare con la ragazza, che sorrise e si accomiatò.
Kyle si avvicinò. — Salve, Stone. Mi spiace di averti interrotto.
— Macché, figurati. Adoro essere interrotto durante i colloqui.
Kyle rimase perplesso: le parole erano ironiche, ma il tono gli era parso normale.
— Dico sul serio — continuò infatti Stone, — Se devo parlare con una studentessa, mi fermo sempre nel corridoio… e più gente ci vede, meglio è. Vorrei proprio evitare il ripetersi di quello ch’è successo cinque anni fa.
— Ah — disse Kyle. Stone rientrò un attimo in ufficio a prendere la borsa, poi si diressero all’Abbeveratoio. Era un piccolo pub con una ventina di tavolini rotondi e il pavimento di legno. L’illuminazione veniva da lampade in stile Tiffany e le finestre erano coperte da pesanti tendaggi.
Comparve un cameriere. — Una Blue Light — ordinò Stone.
— Whisky di segale con ginger ale — preferì Kyle.
Ripartito il cameriere, Stone rivolse la propria attenzione a Kyle; strada facendo avevano parlato del più e del meno, ma adesso, era chiaro, Stone riteneva fosse giunto il momento di conoscere il motivo dell’incontro. — Allora — esortò — che mi dici di bello?
Era tutto il pomeriggio che Kyle ci rimuginava, ma venuti al dunque si accorse che il discorsetto già pronto in mente non gli andava più a genio. Così improvvisò. — Ho… ho un problema, Stone. E ho bisogno di parlarne con qualcuno. Lo so che non siamo mai stati in grande intimità, ma ho sempre pensato a te come a un amico.
Stone lo fissò senza replicare.
— Mi spiace — continuò Kyle. — Lo so che sei occupato. Non avrei dovuto romperti le scatole.
Stone esitò un istante, prima di domandare: — Cosa c’è che non va?
Kyle abbassò lo sguardo. — Mia figlia… — S’interruppe e Stone aspettò semplicemente che si decidesse a proseguire. Finalmente Kyle si sentì pronto. — Mia figlia mi ha accusato di averla molestata. — Poi attese l’inevitabile domanda: “L’hai fatto davvero?”. Ma la domanda non venne.
— Oh — disse Stone.
Kyle non poteva sopportare che quella domanda non gli venisse rivolta. — Io, però, non mi sono mai macchiato di una simile colpa.
Stone annuì.
Ricomparve il cameriere con le bevande.
Kyle rimase in silenzio a fissare il suo whisky vorticante nel ginger ale, in attesa che Stone si decidesse ad ammettere che comprendeva il nesso, che capiva per qual motivo Kyle si fosse, fra tanti, rivolto proprio a lui. Ma Stone faceva orecchie da mercante.
— Anche tu ci sei passato, no? — lo sollecitò allora. — Dico, dover subire una falsa accusa.
Stone distolse lo sguardo. — Roba vecchia, ormai.
— Sì, ma come te la sei cavata? Come hai fatto a liberartene?
— Eppure sei qui — rispose Stone. — Hai pensato a me. Non è evidente? Quella merda non te la scrolli più di dosso.
Kyle bevve un goccio dal suo bicchiere. Benché nel bar fosse ovviamente vietato fumare, l’atmosfera sembrava opprimente, soffocante. Fissò Stone dritto in volto. — Io sono innocente! — scandì, sentendo il bisogno di ribadirlo.
— Hai altri figli? — domandò Stone.
— Avevamo una figlia più grande, Mary. S’è uccisa poco più di un anno fa. Stone si accigliò. — Ah.
— Lo so che cosa stai pensando. Ancora non sappiamo con certezza il motivo, però sospettiamo che un analista possa avere instillato falsi ricordi in entrambe le ragazze.
Stone mandò giù un sorso di birra. — Quindi adesso che avresti intenzione di fare?
— Non lo so. Ho già perso una figlia. Non voglio perdere anche l’altra.
Il pomeriggio si trascinò lentamente. Scese la sera. Stone e Kyle continuarono a bere, la conversazione divenne meno seria e Kyle si accorse a un certo punto che la tensione gli si acquietava.
— La televisione è diventata odiosa — dichiarò Stone. Sguardo interrogativo di Kyle.
— M’è toccato un corso estivo — continuò Stone. — Ieri in classe ho accennato ad Archie Bunker. Nessuno l’aveva mai sentito nominare.
— Davvero?
— Davvero. I ragazzi, oggi, mica li conoscono i classici. I Love Lucy, All in the Family, Barney Miller, Seinfeld, The Pellatt Show… nemmeno uno ne conoscono.
— Be’, anche il Pellatt, ormai, è roba di dieci anni fa — osservò Kyle garbatamente. — Il fatto è che purtroppo stiamo invecchiando.
— No — ribatté Stone. — Non è mica questo il motivo.
Lo sguardo di Kyle si poggiò fugacemente sulla zucca pelata di Stone, per poi guizzare a considerarne la frangia nivea che l’incespugliava d’ambo i lati.
Stone parve non farci caso. Alzò la mano a prevenire obiezioni. — So cosa stai pensando — disse. — Stai pensando che i ragazzi al giorno d’oggi seguono trasmissioni diverse e che io non sono altro che un vecchio baggiano che non è più al passo coi tempi. — Scosse la testa. — Ma il punto non è lì. Be’, cioè, no, credo anch’io che il punto è quello, in un certo senso, ma solo in parte. I ragazzi guardano trasmissioni diverse, d’accordo. Però, vedi, tutti i ragazzi guardano trasmissioni diverse. Mille canali fra cui scegliere, che piovono da ogni buco di questo lercio mondo, più tutta la tivù merda casalinga buttata in rete dai dilettanti. — Riprese fiato con una sorsata di birra. — Ma lo sai quanto si beccò Jerry Seinfeld per l’ultima serie di Seinfeld nell’annata novantasette-novantotto? Un milione di dollari a puntata… dollari USA, oltretutto! E sai perché? Perché a seguirlo c’era mezzo mondo. Di questi tempi, invece, tutti quanti scelgono robe diverse. — Gli cadde lo sguardo in fondo al boccale. — Comunque, spettacoli come Seinfeld non li fanno più. Kyle annuì. — In effetti era un buon programma.
— Erano tutti buoni programmi. E non solo i varietà, ma anche gli sceneggiati. Hill Street Blues, Perry Mason, Colorado Springs… E pensare che nessuno adesso li conosce più.
—Tu sì e io pure.
— E lo credo. Gente della nostra generazione, gente svezzata nel Ventesimo secolo. Ma i ragazzi di adesso… non hanno cultura, ecco. Gli manca una base comune.
— Un altro sorso di birra. — Marshall aveva torto, diciamo la verità. — Sebbene Marshall McLuhan fosse morto ormai da trentasette anni, molti esponenti dell’ambiente universitario continuavano a ricordarlo semplicemente come “Marshall”, il professore che aveva recato fama e lustro all’UDT. — Secondo lui, i nuovi media stavano trasformando il mondo in un villaggio globale… E allora sai che ti dico? Che il villaggio globale è stato balcanizzato.
— Fissò Kyle. — Tua moglie insegna Jung, giusto? Quindi traffica con gli archetipi e tutta quell’altra sguana, no? Bene, nessuno condivide più un accidente di niente. E senza una cultura comune, la civiltà è condannata.
— Può darsi — concesse Kyle.
Trascorse altro tempo e altro alcol andò per la sua strada.
— La vuoi sapere una cosa davvero curiosa? — domandò Kyle a un certo punto. — Io vivevo in una casa con tre donne… mia moglie e le mie due figlie. E non ci crederai, ma avevano finito per essere sincronizzate. E te lo dico io, Stone, può essere una cosa bestiale. Fai conto di camminare in un campo minato una settimana al mese.
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